Musica pop

“We Are the World” fra beneficenza e colonialismo culturale

Ha compiuto 40 anni il brano cantato da un gruppo di superstar americane per combattere la fame in Africa. Un’iniziativa non da tutti vista di buon occhio

  • 12 marzo, 11:01
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Lionel Richie (a sinistra) con alcuni blasonati colleghi durante le registrazioni del brano

  • Keystone
Di: Andrea Rigazzi 

«Per farvi entrare nello spirito della canzone che state per cantare, che speriamo salverà milioni di vite, penso che la cosa migliore sia ricordare che il prezzo per la vita, quest’anno, è un pezzo di plastica largo sette pollici con un buco al centro. Penso sia un’accusa contro di noi e penso che ciò che sta accadendo in Africa sia un crimine di proporzioni storiche. E il crimine è che l’Occidente ha miliardi di tonnellate di grano da farci scoppiare i silos e non lo consegna alle persone che muoiono di fame». Parole dal discorso motivazionale che Bob Geldof pronunciò la notte del 28 gennaio 1985, quando un gruppo di superstar del pop riunito a Los Angeles si apprestava a registrare We Are the World, singolo-evento in favore della popolazione etiope colpita dalla carestia, uscito il 7 marzo dello stesso anno. 

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“We Are the World” compie 40 anni

RSI Cultura 07.03.2025, 16:15

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  • Temporeale, Rete Uno

Geldof era stato l’ispiratore del progetto. Aveva già dato vita a Band Aid, supergruppo di popstar britanniche e irlandesi che avevano messo le loro ugole al servizio di Do They Know It’s Christmas?, uscito pochi mesi prima, e stava lavorando al Live Aid. Iniziative animate sempre dallo stesso intento: aiutare l’Etiopia colpita dalla fame. Da qui la sua esortazione ai colleghi convenuti, prima di uscire di sé e rimproverarli per il ricco buffet organizzato affinché potessero sostenersi durante lo sforzo artistico. Donato dal ristorante, per la cronaca, ma andava spiegato a Geldof, che ai tempi di Band Aid aveva spedito George Michael, Bono, Sting e compagnia cantante a prendersi fish and chips al pub più vicino.

Ora, non faremmo giustizia alla canzone se non snocciolassimo un po’ di cifre e nomi. 20 milioni di copie vendute per un incasso di 100 milioni di dollari. Impreziosiamoli con quattro Grammy e il numero 40 (e più), ossia quante furono le star che risposero all’appello: Michael Jackson e Lionel Richie scrissero la canzone, che condivisero con il gotha del pop di quegli anni. Ricordiamo, fra i tanti, Harry Belafonte, promotore dell’idea, e poi Stevie Wonder, Ray Charles, Billy Joel, Tina Turner, Cindy Lauper, Dionne Warwick, Paul Simon, Diana Ross, Bruce Springsteen e uno spaesatissimo Bob Dylan, a cui Wonder dovette spiegare in che modo cantare la sua parte come Bob Dylan. Furono battezzati USA for Africa, dove USA stava per United Support of Artists, e diretti da una potenza come il produttore Quincy Jones.

Per una prestigiosa lista di presenti, ce ne fu anche una di assenti. Madonna era in tour e non volle cancellare date per partecipare, Barbra Streisand si tirò indietro il giorno prima su consiglio del suo agente, che non la vedeva come una mossa utile per la sua carriera. Quanta lungimiranza. Eddie Murphy era troppo impegnato a registrare la sua Party All the Time, decisamente agli antipodi rispetto alle atmosfere di We Are the World. Prince, invece, non si sa bene perché rinunciò. Forse si arrabbiò perché gli avevano negato un assolo di chitarra, forse non gli piaceva il pezzo, forse non gradiva condividere la scena con così tante star. Qualcuno chiama in causa il fatto che Geldof lo avesse definito «un imbecille» in pubblico. L’incontro tra i due avrebbe potuto suscitare qualche imbarazzo, diciamo così.

Il brano beneficiò di operazioni mediatiche che ne amplificarono la portata: su tutte, ricordiamo le 8’000 stazioni radio di tutto il mondo che il Venerdì Santo lo trasmisero contemporaneamente. Sempre nell’85 uscì un documentario sulla realizzazione del pezzo presentato da Jane Fonda, a cui si è aggiunto quello di Netflix dell’anno scorso.

L’eco di We Are the World non si è esaurita attorno a questi eventi. Ha ispirato canzoni dallo stesso slancio umanitario in tutti i continenti e nel 2010 è stata reinterpretata dai divi del momento in favore di Haiti colpita dal terremoto. Negli anni è saltata fuori anche qualche parodia: e qui rispolveriamo la versione proposta da quella inesauribile fucina di scherzose riletture che furono I promessi sposi del Trio. 

Ripensando a ciò che questo singolo produsse, si può comprendere come all’epoca la musica potesse davvero cambiare il mondo con un disco, o perlomeno mostrare di provarci. Stephen Holden del New York Times evidenziò come nel passaggio «there’s a choice we’re making/we’re saving our lives» la voce delle star assumesse un’aura quasi mistica. Il critico Greil Marcus, invece, sottolineò la somiglianza proprio fra «there’s a choice we’re making» e lo slogan di allora della Pepsi (di cui Jacko e Richie erano testimonial) «Choice of a New Generation». Per questo, la canzone «dice meno sull’Etiopia di quanto dica sulla Pepsi» scrisse in suo saggio aggiungendo che il disco più che l’Etiopia avrebbe aiutato l’azienda americana, «che avrà il suo slogan pubblicitario cantato gratuitamente da Ray Charles, Stevie Wonder, Bruce Springsteen e altri». La sensazione di trovarsi all’interno di uno spot per la nota bibita sfiorò anche Cindy Lauper, che durante le registrazioni bisbigliò «Sembra una pubblicità della Pepsi» all’orecchio di Billy Joel.

Resta in tema di bollicine, ma in termini tutt’altro che leggeri, Jaap Kooijman, professore all’Università di Amsterdam, secondo il quale We Are the World è un esempio di imperialismo culturale a stelle e strisce, che lui definisce «coca-colonizzazione». «We Are the World non è solo un disco pop di beneficenza, ma è soprattutto una vetrina di superstar americane che fungono da ambasciatori ideologici dei valori americani» si legge nel suo libro Fabricating the Absolute Fake. Secondo lui, insomma, non si tratta di sollevare dalle loro pene gli affamati ma di piantare una bandierina.

Ma davvero, avrà pensato qualcuno, bisogna vedere imperialismo “yankee” dappertutto, pure qui?

È il destino di una ballata pop che, avendo affidato al dorato mondo delle superstar il messaggio su temi così toccanti, ha dovuto accettare di portarsi appresso onori e oneri di questa scelta. Un dibattito che vale la pena segnalare, prima che tutto si riduca al meme - divertente, per carità - di uno stralunato Bob Dylan.

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