Musica rock

Psychocandy, zucchero spinato

40 anni fa debuttavano gli scozzesi Jesus and Mary Chain. Mischiando melodia e rumore estremo, diedero avvio alla stagione del noise pop

  • 2 ore fa
La band: al centro, i fratelli Reid

La band: al centro, i fratelli Reid

  • Imago / Avalon.red
Di: Andrea Rigazzi 

Jim e William Reid sono due fratelli di East Kilbride, 15 km da Glasgow, che all’inizio degli anni ’80 hanno un’idea tanto bella quanto pericolosa: affogare le melodie zuccherose dei Beach Boys e dei girl group anni ’60 à la Ronettes nel clangore animale degli Stooges e nelle sferzate di rumore cerebrale dei Velvet Underground.

Nel 1985 qualcuno ha l’idea altrettanto carina e altrettanto perniciosa di mettere tutto su disco: è la Blanco y Negro, etichetta della galassia Warner a cui sono approdati grazie ad Alan McGee, patron della Creation Records e figura alquanto influente nella scena musicale in cui ci muoviamo. Uno perennemente fatto o sbronzo che si capisce la metà di quello che dice, ma che per il talento ha un fiuto come pochi.

Le registrazioni si svolgono con lo stesso approccio dei concerti, in cui i feedback sparati a centomila arrivano a esasperare il pubblico, scatenando perfino delle risse. John Loder, ingegnere del suono, si trova nella posizione di mediatore tra la volontà dei Reid di ottenere quel suono, e la necessità di mantenere una qualità audio professionale. Da questo caos umano e creativo, un giorno della seconda decade di novembre esce Psychocandy, il debutto sulla lunga distanza dei Jesus and Mary Chain

In un periodo in cui sulla musica si addensano i fumi della lacca per capelli, con l’apparenza a farla da padrona, fra un frizzo new romantic e un lazzo synth pop, la band dei nostri chiassosi fratellini decide di prendere la via opposta, di andare all’essenza, di, parole di Jim Reid, «riportare un po’ di tensione nel rock’n’roll». Jim della band è il frontman, e in tutto quel metallico rimbombare colpisce come rimanga distaccato mentre attraversa amore, sesso, noia, droghe. Quella musica lo stordisce o accompagna il suo stordimento? Su ciò che affascina non è il caso di farsi domande.

Fischi scosse scariche sibili fruscii sono scaraventati su canzoni in cui, nonostante gli strati di noise chitarristico voluttuosamente spalati da William, le idee rimangono al centro. E sono idee semplici ma tremendamente efficaci. Proprio come la batteria minimale su cui, memore della lezione di Mo Tucker dei Velvet, e priva di qualunque velleità virtuosistica, picchia la bacchetta di Bobby Gillespie, che conosceremo in seguito come il gran cerimoniere dei Primal Scream. Il “Wall of sound”, il muro fatto di strati sonori tanto caro a Phil Spector diventa una cortina di filo spinato nei pezzi più tosti del disco (The Living End, Taste the Floor, In a Hole, Never Understand) come nelle sue ballate più trasognate (Just Like Honey, Cut Dead, Some Candy Talking, Sowing Seeds).

Ma sono anche idee audaci, che travalicano i confini fra gli artisti e i generi. Ai Jesus piacciono i Ramones, ma tra i loro ascolti trovano spazio anche il pop-soul della Motown e il glam di Gary Glitter e Marc Bolan. «All’epoca incontravi un sacco di gente che ascoltava il punk ma odiava i Beach Boys e lo trovavamo davvero strano», ha ricordato il bassista Douglas Hart. Psychocandy è una caramellona incartata nella pelle nera di una giacca da motociclista, con le borchiette che solleticano i padiglioni auricolari. O se preferite la definizione di Alan McGee, sono Brian Wilson e soci «sotto i colpi delle mitragliatrici».

Due anni dopo, i Reid cambieranno le coordinate del loro suono, spogliandolo delle distorsioni parossistiche. Darklands è un’altra cosa: un disco più morbido, comunque delizioso nella sua uggia. Ma non di rottura come quello che l’ha preceduto. Intanto però i Jesus erano già riusciti a influenzare un sacco di futuri colleghi, che quel verbo lo diffonderanno, ripenseranno, espanderanno fino alle estreme conseguenze. Dai My Bloody Valentine e tutto il giro shoegaze (come Slowdive e Ride) fino ai “nipotini” Ringo Deathstarr, A Place to Bury Strangers e poi ancora una pletora di emuli più o meno capaci.

E certo, parlare con questa naturalezza di un album le cui piste racchiudono il concetto di acufene è forse dare per scontato che anche chi gli si dovesse avvicinare per la prima volta lo ascolti - lo viva, perché è un LP da vivere - così disinvoltamente. Ma tant’è: ci sono dischi che ti restano addosso, per predisposizione o perché hai «la testa modificata», come dice quel collega.

Psychocandy. Il frastuono non ha mai avuto un suono così dolce.

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La band: al centro, i fratelli Reid

Psychocandy 40 (Radio Monnezza, Rete Tre)

RSI Cultura 11.11.2025, 21:00

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  • Maurizio Forte

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