Sarà anche vero, come diceva Mastro Goethe (ma ne era poi convinto?), che il “nome” non è altro che “eco e fumo”, però qualcosa aiuta a capire, ad esempio nel caso dei gruppi musicali. I Big Country, infatti, avevano inizialmente optato per “Little Giants” oppure “Angle Park”, ma alla fine avevano scelto il più evocativo e tutt’altro che banale “Big Country”, perché sintetizzava in due parole la sostanza della loro musica: “Big”, “grande”, ad indicare la pienezza e la potenza del suono, mentre “Country”, “paese”, evocava il fortissimo legame con le radici folk della propria terra, la Scozia delle Highlands.
E poi il logo, originalissimo e inconfondibile: il motivo di una bussola nella parte superiore e un triangolo nella parte inferiore, col disegno stilizzato di un cardo, il fiore nazionale scozzese. Altri tempi, altri sogni? Può darsi, perché bisogna avere qualche primavera alle spalle per ricordarli, ma il ricordo è ancora intenso e piacevolmente insidioso, a dimostrazione del fatto che lo spazio e il tempo in ultima analisi sono soltanto forme della percezione. E che la memoria sa bene cosa trattenere e cosa scartare.
Formatisi nel 1981 nell’antica capitale Dunfermline (dal toponimo gaelico “Dùn Phàrlain”, che significa pressappoco “Forte sull’ansa del fiume”) nella contea del Fife, a nord di Edimburgo, i Big Country hanno attraversato vent’anni di storia del rock britannico come una sorta di masso erratico proveniente da un’altra dimensione (forse dalla “perfezione del degrado”, che secondo Daniel Defoe era la caratteristica di quelle contrade della Scozia).
E’ difficile, del resto, trovare paragoni adeguati (gli unici, forse, riguardano i gallesi Alarm, i primi U2 e i Waterboys di “This Is The Sea”) per il loro rock essenziale ma anche molto epico, con testi di forte impegno politico e sociale e soprattutto con sonorità assolutamente uniche, create da una base ritmica potentissima (il bassista Tony Butler e il batterista Mark Brzezicki) a supporto delle chitarre di Bruce Watson e del leader carismatico Stuart Adamson (ex membro degli Skids, i pionieri del punk scozzese nei tardi anni Settanta), che producevano un suono molto simile a quello delle cornamuse. Fu infatti ribattezzato “celtic-rock” o più frequentemente “bagpipe-rock”, vale a dire “rock celtico” o “rock delle cornamuse”. Il messaggio che intendeva veicolare era molto chiaro e diretto: non c’è soltanto la Scozia da cartolina del tartan e dei gonnellini a scacchi, perché c’è anche -e soprattutto- un “grande paese” con le sue meravigliose vallate, le sue tradizioni, le sue coste degne dei racconti di Conrad come “Amy Foster”, la sua antica nobiltà popolare, i suoi miti e il suo legittimo orgoglio identitario.
Il “trucco”, se così lo si può definire, era molto semplice, solo che nessuno ci aveva mai pensato prima: le chitarre elettriche erano fortemente ingegnerizzate grazie all’uso del distorsore MXR Pitch Transposer M-129, mentre le vibrazioni prodotte dai cosiddetti dispositivi “e-bow” permettevano alle sei corde di creare un tappeto sonoro che richiamava gli archi e i sintetizzatori. Nato da queste premesse, l’album d’esordio “The Crossing”, uscito nella tarda estate del 1983, trainato da brani come la quasi eponima “In A Big Country” (una vera e propria dichiarazione d’identità), la trascinante giga di “Fields Of Fire”, la sinuosa “Harvest Home”, la conclusiva e incalzante “Porrohman” e non da ultimo la meravigliosa “Chance”, col suo ritornello da “sing along” (“Oh, Lord, where did the feeling go / Oh, Lord, I never felt so low”), rimane una pietra miliare che ha segnato un “prima” e un “dopo” nel rock britannico. L’album vendette un milione di copie nel solo Regno Unito e fece dei Big Country il gruppo rock per eccellenza, insieme agli U2.
Ma le alchimie, quando sono assolutamente perfette (e quella di “The Crossing” era assolutamente perfetta), hanno breve durata e tendono fatalmente a stemperarsi nella maniera. Nel caso dei Big Country, l’alchimia durò quel tanto che bastava per produrre nel 1984 il singolo “Wonderland” e poi un disco come “Steeltown”, che con ogni evidenza rimane uno dei dischi del decennio e un vademecum fondamentale per capire cosa sia stato il Regno Unito nel periodo del thatcherismo. “Steeltown” (“Città d’acciaio”), che il giorno stesso dell’uscita, nell’ottobre 1984, raggiunse il primo posto delle classifiche di vendita, è una specie di concept album che prende spunto dalla famosa o famigerata diaspora del 1935, quando al culmine della Grande Depressione molti scozzesi emigrarono per trovare impiego nelle fabbriche siderurgiche di Corby nel Northamptonshire. Si tratta, in realtà, di un semplice spunto (anche se magistralmente svolto nell’infuocata title-track e in “East Of Eden”), perché le altre otto tracce si uniscono a formare una nitida immagine delle speranze ma soprattutto delle disillusioni e inquietudini del periodo, in particolare quelle lasciate dall’allora recente conflitto per le Isole Falkland (“Where The Rose Is Sown”, “Come Back To Me”) e dal persistere della guerra fredda coi blocchi contrapposti (“Flame Of The West”, “The Great Divide”).
Le chitarre di Adamson e Watson si inseguono in continui riff scatenati, il basso di Butler è teso e nervoso, la ritmica di Brzezicki è aggressiva e avvolgente: il “bagpipe rock” si fa molto più duro, con più di uno sconfinamento nel metal. Nel giro di un anno, la “terra delle meraviglie” e il “grande paese” hanno lasciato posto al canceroso paesaggio industriale e post-industriale della “città d’acciaio”, con racconti di disoccupazione, alienazione, sfruttamento e minacce nucleari. Confesserà qualche anno dopo Stuart Adamson, forse per giustificare una svolta così radicale e disorientante: «La gente si aspettava la continuazione di “The Crossing”, ma quello era un album fiducioso, pieno di inni di speranza. “Steeltown”, invece, doveva servire a far riflettere, ad affrontare la realtà». Ma il momento del massimo successo segna anche l’inizio della fine.
«Ci sono giorni che sembrano durare migliaia di anni / Altri che passano con la velocità di un fulmine / Chissà dove andranno mai tutti questi giorni…», dicono i versi centrali di “East of Eden”. Il declino è lungo e non privo di gloria, ma pur sempre un declino. Ormai il “bagpipe rock” (forse un po’ abusato) non è più una novità, si sta avvicinando l’era del grunge, del rave, dell’hip-hop e del brit-pop, e i Big Country (ma con loro molti gruppi del primo scorcio del decennio) diventano quasi un anacronismo. Ad ogni modo, i due dischi che chiudono gli anni Ottanta, “The Seer” (1986) e “Peace In Our Time” (1988), vedono ampliarsi la popolarità planetaria del gruppo -molto conosciuto anche in Italia e in Svizzera, con un’apparizione al Festival Jazz di Montreux nel 1986- che “sfonda” perfino la cortina di ferro ed è il primo gruppo rock occidentale ad esibirsi prima a Berlino Est e poi a Mosca, in giugno e ottobre 1988.
Ma dell’alchimia perfetta degli esordi rimane ormai ben poco, per quanto la si possa ritrovare nella colonna sonora del film “Restless Natives”, del 1985, una lunga suite di quasi quaranta minuti. Il film racconta la storia tragicomica di due ragazzi, cresciuti in un quartiere popolare di Edimburgo, che tentano di dare una svolta alla propria vita camuffandosi da clown e uomo-lupo e depredando i pullman dei turisti, ma alla fine saranno loro a diventare un’attrazione turistica.
Gli anni Novanta partono male con lo stanco e poco ispirato “No Place Like Home”, che abbandona quasi totalmente il “grande paese” e le radici scozzesi per strizzare l’occhio a un country-folk molto americano, che non è nelle corde del gruppo. I successivi “The Buffalo Skinners” (1993) e “Why The Long Face” (1995) non spostano di molto l’inerzia: abbastanza notevole il primo, infatti, che tenta di fondere le sonorità di “The Crossing” e “Steeltown” e in parte ci riesce, soprattutto nei singoli “Alone” e “Ships” (una ballatona per cuori infranti, all’apparenza, ma poi si scoprirà il suo vero significato); piuttosto trascurabile, invece, il secondo, che nel pieno del periodo grunge e brit-pop sembra provenire davvero da un’altra epoca e mette la parola fine sulla storia dei Big Country come alfieri del “bagpipe rock”.
Tuttavia, l’album che suggella l’intera vicenda e la consegna a futura memoria è uno splendido e doloroso canto del cigno. Registrato a Nashville e intriso di echi e screziature blues, “Driving To Damascus” (1999) è senza alcun dubbio il disco più bello e più maturo del gruppo, anche perché svolge e riassume tutte le suggestioni contenute negli episodi migliori degli album precedenti. Ma è anche un disco piuttosto oscuro, i cui testi molto criptici sono pervasi da strani messaggi di morte (l’iniziale title-track, “Dive Into Me”, “Your Spirit To Me” e la conclusiva e tribale “Grace”, dove si parla di un sinistro sacrificio rituale) e richieste d’aiuto (il singolo “Fragile Thing”, cantato da Adamson insieme a Eddi Reader).
Il senso più autentico di quei messaggi -e del testo della già ricordata “Ships”- si svelò drammaticamente il 16 dicembre 2001, alcuni mesi dopo lo scioglimento ufficiale del gruppo, quando il 43enne Stuart Adamson venne trovato privo di vita in una camera di un albergo di Honolulu: oppresso da varie traversie sentimentali, dalla dipendenza dall’alcol e da continue crisi depressive, ma anche da un successo e una fama che erano andati oltre le sue genuine e in fondo umili aspettative, si era impiccato con un cavo elettrico nel guardaroba della camera. Aveva detto al culmine del successo, con disarmante sincerità: «Odiavo totalmente l’industria discografica e i suoi capi, non riuscivo a concepirla come sistema funzionante. Dopo il primo album inciso, ero sul punto di abbandonare tutto. Ma non mi rendevo conto che la persona con cui andavo meno d’accordo ero proprio io». Lo stesso Adamson, del resto, aveva fatto dire all’io narrante di “In A Big Country”: «Non mi aspetto di vedere le rose fiorire nel deserto / Però vorrei vivere e respirare / E vedere il sole in inverno».
Come spesso accade, finisce la storia e non comincia l’oblio. Comincia invece la leggenda, perché a quarant’anni dal disco d’esordio e oltre vent’anni dopo la loro fine, con Adamson ormai eternato nell’ambra del mito, i Big Country sono diventati per la Scozia ciò che i Nomadi di Augusto Daolio hanno rappresentato e rappresentano tuttora per l’Italia: un gruppo non solamente leggendario ma quasi mitologico, con un leader carismatico troppo prematuramente scomparso e canzoni che tutti riconoscono -e nelle quali si riconoscono- fin dal primo accordo e dai primi versi.
E’ il caso, solo per citare un esempio, di “In A Big Country”, la “canzone originaria” di Adamson e soci (ne esistono infinite cover: una delle più belle è dei December, giovane gruppo di Glasgow). Perché l’ultimo verso del ritornello, quattro decenni dopo, si ascolta sicuramente con malcelata nostalgia, ma anche come un invito a resistere agli schiaffi e alle ingiurie della “realtà” e del tempo che passa: «In a big country dreams stay with you / Like a lover’s voice across the mountainside / Stay alive».