Non mancano di certo importanti riconoscimenti a Paolo Conte, e in occasione del Premio Cesare Pavese, che si è svolto a Santo Stefano Belbo il 29 giugno 2025, abbiamo impaginato qualche estratto assai curioso dell’intervista con “l’avvocato di Asti”. Ma non è tutto, a proposito di riconoscimenti: forse mai mandata in onda la lectio in occasione della laurea magistrale in musicologia che l’Università di Pavia ha conferito a Paolo Conte.
L’intervista parte dall’approccio alla canzone, che per lui è quasi come scrivere una piccola sceneggiatura:
«Tecnicamente trovo che le canzoni si rifacciano un po’ alla tecnica cinematografica, perché hanno in comune la necessità di raccontare in fretta con dei flash, con anche dei flashback, in certi casi raccontare in fretta una storia e tenerla concentrata in quei 3 minuti, 4 minuti al massimo, tempo ideale per la durata di una canzone. Un po’ bisogna richiamarci alla scuola francese, che ci ha insegnato proprio ad amministrare questi 3 minuti come se fossero una pièce di teatro. Poi può succedere delle volte, per esempio, che io metto due personaggi, un uomo, una donna e li faccio un po’ frizionare tra di loro, ma in questo non voglio dare nessun giudizio, semplicemente mi serve, da un punto di vista teatrale, che ci sia un po’ di antagonismo tra i due universi».
Conte compie una serena autocritica riguardo al suo modo di affrontare il lavoro:
«Io so benissimo che ho dei limiti e che affronto questo mestiere con dei complessi. Complesso del provinciale, il complesso dell’italiano, nel senso che musicalmente mi piacerebbe che le canzoni venissero cantate in inglese perché è la lingua più fluida che ci sia, è la più musicale, la più ritmica. E il complesso di me stesso. Perché mi sono trovato a un certo punto della mia vita, dopo aver fatto altri mestieri e poi aver fatto il compositore per gli altri, a dover invece testimoniare direttamente io, mettendoci proprio la mia faccia. E questo è venuto un po’ anche con naturalezza, perché mi sono accorto che annusavo nell’aria che il pubblico, specialmente giovane, a un certo punto voleva che chiunque scrivesse qualcosa, poi evidentemente con la sua faccia, e quindi con tutti i limiti che che io potevo avere».
Intervengono anche le stelle: non quelle del jazz di una sua famosa canzone, ma quelle dell’astrologia. Lui è Capricorno:
«Io non è che mi intendo di segni zodiacali, e neanche che ci creda poi tanto, ma devo dire che mi riconosco un po’ nel mio segno, perché è un segno un po’ violetto, un dio lontano. Siamo un po’ difficili per gli altri e difficili anche molto per noi stessi. Questo è vero. Per cui sì, è sempre tutto una battaglia tra il vero e non vero. Io comunque non ho mai amato le certezze e sono sempre stato proprio quasi goloso del dubbio. Ecco, secondo me è proprio una piccola luce azzurra che ci accompagna, che ci aiuta».
Con Paolo Conte la musica si intreccia con la poesia: qual è, se c’è, quella che arriva prima, quando compone?
«In verità nel 95-97% [dei casi] sempre la musica prima, senza avere idea di parole se non l’idea di un’atmosfera che comunque, in quanto musicale, ti si presenta astratta, quasi in bianco e nero. Anzi, qualche volta le parole, quando le metti, ti sforzi di farle somigliare a quella musica. Ma le parole purtroppo sono talmente precise, soprattutto in lingua italiana, che è la tua lingua, sai tutti i significati che può avere una parola e sono così cariche di concretezze, quindi anche di colore per cui con quel bianco e nero iniziale vanno ogni tanto a fare un po’ di guerra. Pochissime volte mi è capitato che qualche idea di testo mi venisse proprio suonando. Uno proprio che mi ricordo bene è Genova per noi. Genova per noi è nato sia musica che testo da solo al pianoforte e venivano già le parole insieme. Sì, ma poi mi ricordo pochissime altre cose c’erano solo una testo di Boogie, per esempio, che l’avevo scritto in treno. Prima ancora della musica e poi me lo sono tenuto lì e poi dopo al momento buono insomma ho sfruttato».