Musica folk

Tim Buckley, il navigatore delle stelle

50 anni fa un’overdose ne stroncò il talento. Una voce straordinaria e una scrittura che infranse ogni barriera stilistica

  • Oggi, 11:05
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Di: Gian Luca Verga 
Alla deriva in mari deserti
Facevo del mio meglio per sorridere
Fino a che le tue dita e i tuoi occhi ridenti
Non mi hanno attirato verso la tua isola
E tu cantavi
Naviga verso di me
Naviga verso di me, lascia che io ti avvolga

Tim Buckley, “Song to the Siren”

Questo l’incipit di una tra le più straordinarie canzoni mai scritte; più che una canzone forse un vero incantesimo, quella Song to the Siren che Tim Buckley pubblicò nel 1975 in un album che ne certifica il genio artistico: Starsailor. Una manciata di canzoni senza rete, grazie alle quali spicca in modo definitivo quel “folle volo” che lo condurrà a “navigare tra le stelle”, dialogando con angeli e comete rivolgendo il suo sguardo sugli abissi della propria anima. Eppure, Buckley, un vero gigante al netto del figlio Jeff, che per altro vide una sola volta in vita sua, è artista dimenticato tra le pieghe di quel romanzo stupefacente che è la storia del rock. Pagine nelle quali si affastellano volti, storie, movimenti, eventi e voci.

Già, la voce. La sua fece gridare al miracolo quando l’affrancò definitivamente dal songwriting canonico della canzone del tempo. Perché la sua canzone, nella California di fine anni ’60 era intrisa di folk e blues, e non poteva esser altrimenti frequentando come tutti o quasi le modalità cantautorali codificate da Dylan. Le cronache ci raccontano che Blonde on Blonde, pubblicato da Dylan nel ’67, fu ascoltato e sviscerato da Tim e la sua ciurma. Ma Tim crebbe in una famiglia di un cui Billie Holiday, Hank Williams, Sinatra e Judy Garland riempivano di note la domenica mattina. La madre era una fan di Miles Davis mentre il padre prediligeva il country. Non solo il folk, dunque, e la ricchezza degli ascolti domestici: la California dell’epoca, colorata, libera e lisergica offrì altri input fondamentali alla sua estetica e poetica sonora. Oltre a un campionario di droghe che ne decretò la prematura fine. 

Tim si convinse che doveva trovare un suono e una forma che aderissero alla propria personalità, che gli permettessero di esprimere la sua ricca, ribollente, tormentata interiorità. Inizia così a scardinare la forma canzone, ampliarne i confini, stratificare il suono. Che poi smantella e sconvolge nel corso del tempo, infrangendo barriere stilistiche, nutrendo il suo linguaggio musicale di jazz, avanguardia, psichedelia e padiglioni lontani. Senza scordare la fascinazione e le frequentazioni del mondo poetico della Beat Generation. Apprezzato anche da Frank Zappa per la libertà espressiva e il desiderio di sperimentare che ardeva, fu proprio il manager dello Zio Frank, Herb Cohen, a metterlo sotto contratto prima con la Elektra per la quale pubblico i suoi primi album e, successivamente, con la Straight Records, casa discografica appunto di Zappa. 

I suoi primi lavori, seppur di qualità, risultano abbastanza canonici ma recano in grembo i prodromi di ciò che sarebbe diventato. E soprattutto canzoni a dir poco meravigliose tra le quali, ad esempio Troubadour, Once I Was, Blue Melody o Phantasmagoria in Two. Album intrisi di quel folk che lascerà a breve il passo, che si libera a fronte della sua proverbiale necessità interiore di sperimentare linguaggi e forme, e di manifestare compiutamente quella vocalità (estensione pare di cinque ottave e mezzo) che lo renderà unico, funambolico, inarrivabile anche, o soprattutto, per l’espressività del canto, spostata sempre più verso un lirismo malinconico. La sua è una sorta di vocalità astratta, di canto lamentoso e ieratico che si manifesta compiutamente in una manciata di album quali Blue Afternoon, Lorca e soprattutto Starsailor; album struggente e straziante il cui limite della sua vocalità e della sua scrittura musicale libera e sperimentale è davvero il cielo stellato, la volta celeste.

Nato nel giorno di San Valentino nel 1947, Tim manifesta uno spirito inquieto e un carattere ribelle in adolescenza; intorno ai vent’anni ha già pubblicato una manciata di album che lo profilano quale eccellenza nel panorama folk dell’epoca, prima di elaborare e affinare quello stile unico, capace di ibridare suoni, forme e linguaggi.

Nel frattempo sposa Mary Guibert, compagna di scuola, da cui ebbe un figlio, Jeff, che non conobbe in quanto il sodalizio amoroso si infranse prima della nascita del figlio; che Tim riconobbe, certo, ma vide una sola volta. E sempre tra le aule scolastiche conobbe il poeta Larry Beckett, figura importate per Tim e col quale collaborerà per la stesura di molti suoi testi. Importante al pari del fedele chitarrista Lee Underwood, che a proposito della sua rivoluzione artistica scrisse: «Tim fece per la voce ciò che Hendrix fece per la chitarra, Cecil Taylor per il piano e John Coltrane per il sassofono». Una vocalità considerata probabilmente la migliore del ’900, dove tutto è permesso, sorretta dal timbro sofisticato dell’artista che nobilita quelle meraviglie vocali che dispenserà copiosamente in album leggendari quali anche Blue Afternoon e Happy Sad; quest’ultimo pare Nick Drake lo suonasse nella sua cameretta fino a consumarne i solchi.

Toccato l’apice con Starsailor, Tim prosegue sperimentando ancora tra jazz, fusion, rock psichedelico, funk e r’n’b alternando luci e ombre, successi, davvero pochi, e frustrazioni per lo scarso responso che incontrava. Fino a quella notte tra il 28 e il 29 giugno del 1975, quando un’overdose fradicia di alcol stroncava il volo di una tra le meteore più accecanti del ‘900. Aveva solo 28 anni, Tim Buckley.  E fu un lampo nel cielo stellato della California; un bagliore abbacinante, stordente che lo proiettò per sempre verso l’infinito.

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50 anni fa moriva Tim Buckley (We Are the Champions, Rete Tre)

RSI Cultura 29.06.2025, 09:50

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  • Angelo Caruso

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