Musica blues

Meglio un mito farlocco di una sciapa realtà

Seasick Steve arrivò al successo a 65 anni dopo una vita da vagabondo. Ma le cose erano ben diverse

  • Oggi, 15:00
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Di: Andrea Rigazzi 

C’è stato un periodo in cui ho affondato le mie orecchie nel blues. Quello primitivo, delle origini, emerso dai fanghi del Mississippi nei primi decenni del secolo scorso. Charley Patton. E poi Robert Johnson, Son House, Skip James e tutta una serie di grandi spostati. Ognuno con il suo carico di leggende e dicerie sulle spalle, con le corde della chitarra e le corde vocali mi portavano in quella dimensione limacciosa accarezzando i miei, di blues, intesi come momenti di introspezione.

Questo mi portò ad accogliere con orecchie ben disposte l’avvento di Seasick Steve. Un bluesman bianco, con i tatuaggi sulle braccia, la lunga barba canuta e il cappellino “John Deere” in testa che, con chitarre un po’ scrence, proponeva il suo ruspante country blues. Una carriera sbocciata a 65 anni. All’età in cui la maggior parte di noi va in pensione, lui saliva sui palchi internazionali. Deliziando il palato fine degli inglesi: quelli di Mojo, nel 2007, lo premiarono come rivelazione dell’anno, nel 2009 ottenne una nomination ai Brit Awards, nel 2016 suonò alla Wembley Arena entrandovi su di un trattore.

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Seasick Steve: Sonic Soul Boogie (Radio Monnezza, Rete Tre)

RSI Cultura 05.05.2025, 20:00

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  • Maurizio Forte

Onestamente, noi che a Rete Tre seguivamo il personaggio (fu Dj Monnezza a farmelo conoscere) non ci curavamo granché di questi riscontri. A noi interessava di più sentire la sua voce di vecchio che aveva vissuto la vita. Tante vite. Tantissime.

“Seasick” Steven Gene Wold, nato nel 1941 in California, a 14 anni era scappato di casa per sfuggire a un padre violento e iniziare una vita da hobo, da vagabondo in viaggio saltando da un treno all’altro. Dormiva all’addiaccio e faceva lavoretti saltuari, con un solo talismano appresso: una chitarra a cui affidava il suo dolore nelle notti di solitudine. Fino a quando…

...Fino a quando il successo non gli arrise. Accadde praticamente subito, con il primo album, Dog House Music. Un po’ di bassa fedeltà e polvere che te lo fanno amare all’istante, collocandolo nella stessa categoria di colleghi afroamericani come RL Burnside, Elmo Williams o T-Model Ford. Gente da juke joint, con quelle belle cadenze da sud degli Stati Uniti e la piega da “la vita è una canaglia, suoniamo per fregarla e al diavolo tutto il resto”.

Tutto molto bello, diceva il compianto Bruno Pizzul. Peccato che fosse anche tutto molto falso. Non la musica, quella è la parte più genuina. Quest’uomo sa il fatto suo, altroché se lo sa. Era il resto a non esserlo.

La verità emerse quando lo scrittore Matthew Wright iniziò a fare le sue ricerche per una biografia non autorizzata, uscita poi con il titolo Seasick Steve: Ramblin’ Man. Mise in fila parecchie cose che non quadravano: «Come l’ho scoperto? In primo luogo, perché lo ha affermato lui stesso: in interviste rilasciate sia alla stampa americana che a quella norvegese, prima di diventare famoso, ha dichiarato apertamente l’età esatta, il cognome originale e la sua presenza a Haight-Ashbury a metà e fine anni Sessanta». Haight-Ashbury è stato uno dei luoghi-simbolo della psichedelia in quegli anni.

Fra un’incongruenza e l’altra, venne fuori che il Nostro in realtà si chiama Steve Leach – e non Wold. Però Wold in inglese ha a che fare col terreno, fa molto più coltivazioni del Nordamerica rurale. Steve Leach che è nato nel 1951, e non nel ’41. Quindi ha dieci anni di meno di quelli dichiarati. In un’epoca come questa, aggiungersi anni d’età è comunque un atto rivoluzionario. È stato un turnista, un session man. Ha suonato disco music con i Crystal Grass, fusion trascendentale indo-statunitense con gli Shanti, ha prestato i suoi servigi ai Celebration, formazione del Beach Boy Mike Love dedita alla meditazione. Per farla breve, fra i ’70 e gli ’80 è stato molto attivo nell’ambiente, altro che dilettante. 

La sua (falsa) storia di musicista senza fissa dimora e ai margini della società però è piaciuta, e tanto, a quelle generazioni che non possono fare a meno dello smartphone. Anche un altro scrittore, Sean O’Hagan, dopo averlo incontrato, aveva notato questa confusione nei racconti. Che però alla fine fa gioco a Seasick Steve poiché intuisce «che il suo pubblico, perlopiù giovane, preferisce il mito alla realtà». E infatti continua tranquillo e sereno a trovare palchi disposti a ospitarlo.

Parola dunque a lui, che in occasione di quel concerto alla Wembley Arena replicò dal palco: «Si è scritto così tanto su di me sulla stampa, e immagino che a quattro o cinque di voi possa interessare. Beh, quando ho scritto una canzone sull’andare via di casa prima dei 14 anni, e una canzone sul vagare saltando sui treni da stupido adolescente, e una canzone sull’essere stato rinchiuso, è perché ho fatto tutte quelle cose».

Siamo di fronte a un uomo che ha capito come nella vita, per fare strada, il marketing sia importante. Per dirla con Wright, è «un uomo orgoglioso, sempre desideroso di gestire la propria immagine a proprio vantaggio, anche prima di diventare famoso». Vostro Onore, possiamo davvero condannare un uomo per questo?

Eppoi, cosa resterebbe della musica se dopo averla spogliata della magia dei dischi e della mortalità delle sue stelle (che le consegnava diligente alla leggenda), le strappassimo di dosso pure le storie che circondano gli artisti?

Se, come ci hanno sbattuto in faccia i Sex Pistols, il rock’n’roll è una grande truffa, perché non può esserlo il blues dal quale il r’n’r discende? Qui poi truffa va messo fra virgolette: parliamo più di una finzione che riguarda gli aspetti biografici. È la confezione, dentro questa matrioska di identità troviamo un musicista vero.

E a me è venuta voglia di riascoltare i suoi dischi.

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