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Play it again Joni

Chinese Cafe, ovvero la più bella* canzone di Joni Mitchell

  • 9 novembre 2023, 14:00
Joni Mitchell
  • Reuters
Di: Sergio De Laurentiis

*Disclaimer (come dicono i millennials o i boomers, non so): la definizione è fondamentalmente quella cosa che Fantozzi dice della Corazzata Potëmkin, per il semplice fatto che è impossibile stilare una graduatoria delle canzoni scritte da Roberta Joan Anderson, una signora che ha appena festeggiato gli 80 anni, compiuti il 7 novembre, meglio conosciuta come Joni Mitchell, la più grande autrice degli ultimi 60 anni (in questo caso ci sono solidi argomenti per piazzarla in cima alla classifica). Ma se per qualche oscuro e imperscrutabile motivo qualcuno mi intimasse di scegliere una sola canzone sarebbe proprio questa. Fine del disclaimer.

Due donne, due amiche si ritrovano a parlare della vita, dei figli, della loro giovinezza. Ecco come si potrebbe descrivere in estrema sintesi “Chinese Cafe/Unchained Melody”. Wow, che premessa eccitante e originale. E quindi di grazia, che cosa la renderebbe “la più bella canzone di Joni”? Ok, cerchiamo di mettere un po’ d’ordine. Partiamo dall’attacco del brano, che fa così:

“Intrappolate nel mezzo
Carol siamo classe media
Siamo di mezza età
Eravamo selvagge ai vecchi tempi
Nei giorni della nascita del rock ‘n’ roll
I tuoi figli stanno crescendo bene
Mia figlia è un’estranea
L’annoio
Ma non ce l’ho fatta a crescerla”

Nemmeno una strofa e già siamo nel bel mezzo della storia: non sono semplicemente quattro chiacchiere tra vecchie amiche, le quattro chiacchiere diventano le riflessioni di una donna alle prese con i primi bilanci, che di solito, per citare il Poeta, si cominciano a fare più o meno lì, nel mezzo del cammin di nostra vita (Joni scrive il brano quando non ha ancora 40 anni; il Poeta ha sempre ragione). È un bilancio di una schiettezza rara, che sconfina nella brutalità. I tre ultimi versi sono particolarmente significativi: contengono due verità e una bugia. Non è vero che Joni l’annoia, perché in quel momento non sa nemmeno dov’è la figlia, che sì, è un’estranea, e sì, non ha cresciuto, infatti l’ha affidata in adozione appena dopo la nascita e la rivedrà solo all’inizio degli anni ’90. È un bilancio agrodolce, con la bilancia che pende decisamente sull’agro.

“Niente dura a lungo, niente dura a lungo, niente dura a lungo”

C’è spazio anche per allargare lo sguardo, dal personale al sociale, con una fulminante descrizione degli effetti di un capitalismo senza più freni, che si sta liberando di lacci e lacciuoli (sono i tempi di Reagan e Thatcher, papà e mamma del neoliberismo): sono i “soldi dell’uranio” che stanno ridisegnando il volto della cittadina della loro giovinezza e quello di mille altre città, che si curano ben poco delle tradizioni e delle esigenze della comunità, e quindi vai col cemento, vai con i parcheggi al posto dei parchi. “Per quanto tempo, per quanto tempo, miopi uomini d’affari?” si chiede a un certo punto Joni: considerato che la domanda è stata posta più di 40 anni fa, è abbastanza sconsolante constatare che la situazione non è cambiata un granché, anzi.  

E sì, c’è anche un po’ di nostalgia canaglia, che qui prende la forma delle monetine che le amiche infilavano nel jukebox del caffè cinese per ascoltare la loro canzone del cuore, “Unchained Melody”, brano della metà degli anni ’50, scritto per il film omonimo e portato al grande successo dai Righteous Brothers – che fratelli non erano ma questa è un’altra storia – nel 1965; la stessa versione tornerà a respirare l’aria fina delle vette delle charts 25 anni dopo grazie ad un altro film, “Ghost” con Demi Moore e Patrick Swayze. È qui che il genio di Joni Mitchell esplode in tutta la sua forza e bellezza: “Unchained Melody” non viene solo evocata, viene letteralmente inserita nella canzone e ne diventa parte integrante. Nel primo ritornello c’è solo un accenno fugace, poi, man mano che la canzone si sviluppa, prende sempre più spazio, con un finale in cui è difficile distinguere il confine tra la citazione e la composizione originale della Mitchell. La leggerezza, la dolcezza, il romanticismo un po’ melassoso dei versi originali di “Unchained Melody” si trasformano in qualcosa d’altro, fino a fondersi in maniera sorprendentemente perfetta con l’atmosfera meditativa, melanconica del brano.

“Oh, amore mio, mia cara,
ho desiderato ardentemente il tuo tocco
Un lungo tempo solitario
E il tempo passa così lentamente

E il tempo può fare così tanto
Sei ancora mia? Ho bisogno del tuo amore,
ho bisogno del tuo amore,
Dio, mandami il tuo amore”
(Il tempo va - dove va il tempo, mi chiedo dove vada il tempo)“

Il concetto di canzone più bella, non c’è alcun dubbio, è altamente opinabile; però ci sono ben pochi dubbi sul fatto che solo un genio come Joni Mitchell poteva comporre un capolavoro come “Chinese Cafe/Unchained Melody”.

Joni Mitchell - Tra folk, blues e jazz (a cura di Riccardo Bertoncelli)

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