«Se non lo raccontiamo noi, nessuno lo farà». È una frase ripetuta nei video girati con il cellulare tra le macerie di El-Fasher o nei campi profughi al confine con il Ciad. È il mantra di una generazione che ha perso tutto, tranne la voce.

Sudan, nuovi massacri di civili
Telegiornale 31.10.2025, 20:00
È da oltre due anni, infatti, che il Sudan è attraversato da un conflitto brutale tra l’esercito regolare e le Forze di Supporto Rapido (RSF). Una guerra che ha già causato decine di migliaia di morti, 11 milioni di sfollati e una crisi umanitaria che l’Alto Commissario ONU per i diritti umani, Volker Türk, ha definito tra le peggiori al mondo.
Eppure, sui media internazionali, il Sudan è pressoché assente. Le prime pagine si riempiono di altri conflitti, mentre il dramma sudanese resta ai margini, come se non fosse abbastanza vicino o raccontabile. Ciò nonostante, le atrocità commesse nel Darfur e in altre regioni sono documentate con una precisione inquietante. Non da giornalisti o inviati speciali, ma da chi le compie. Una parte significativa dei video che circolano online – esecuzioni sommarie, fosse comuni, villaggi incendiati – è stata caricata direttamente dai miliziani delle RSF. Un atto di intimidazione per mostrare il loro potere, per costruire una narrazione di terrore.
I social diventano così non solo strumenti di testimonianza, ma anche di propaganda violenta. Ma chi ha il diritto di raccontare una guerra? È giusto rilanciare immagini di corpi senza vita, di madri in lacrime, di bambini feriti? La viralità a volte finisce per essere mero consumo.
In questo scenario disturbante, la risposta a questa cronaca agghiacciante arriva dal basso. Attivisti, artisti, membri della diaspora sudanese sfruttano le stesse piattaforme usate dai loro carnefici per ribaltare la narrazione. Twitter/X, Instagram, TikTok, YouTube sono diventati archivi digitali di una tragedia collettiva. Non c’è mediazione giornalistica, non c’è filtro. Solo voci. E immagini.
Tysir Salih, Meaad El Badawi, Ayman Mustafa sono solo alcuni degli attivisti sudanesi che quotidianamente riempiono questo vuoto di copertura mediatica sui social, trasformando dolore e resistenza in testimonianza. Hashtag come #BlueForSudan (2019) #KeepEyesOnSudan (2024) e pagine come Darfur Women Action Group o Sudanese Diaspora Network diventano archivi di memoria contro l’invisibilità e l’oblio.
La diaspora sudanese, sparsa tra Europa, Nord America e Medio Oriente, svolge un ruolo cruciale. Traduttori spontanei, attivisti digitali, archivisti improvvisati. Giovani nati a Khartoum, ma stabilitisi a Londra, Berlino, Toronto. Piattaforme di storytelling come Sudan Open Archive o Nuaar Media raccolgono racconti, video, foto, messaggi vocali. Non per pietà, ma per memoria. Perché un giorno qualcuno possa dire: «È successo davvero».
In mezzo al dolore, c’è chi continua a creare. Come il fotografo Hassan Kamil - artista multidisciplinare e membro de African Photo Journalism Database - che regala al pubblico uno sguardo intimo della vita sudanese: da dettagli architetturali dei suoi luoghi più cari a persone che vagano in aree remote. Dal 15 aprile 2023, data dell’inizio della guerra civile, il lavoro di Kamil può essere paragonato a un esercizio di documentazione, in cui invece di leggere le statistiche sugli sfollamenti, è possibile vederli attraverso il suo obiettivo. Raccontando in fotografia la sua esperienza nel sottoporsi a sporadici controlli di sicurezza attraverso i confini del sud-est, Kamil ci fornisce un’esperienza viscerale di cosa significhi veramente cercare rifugio. Anche altri artisti sudanesi come Reem Aljeally (curatrice e fondatrice di The Muse Multi Studios), Rashid Diab (una delle voci pioniere dell’arte contemporanea sudanese) e Amna Elhassan continuano a raccontare i drammi del loro paese attraverso le loro opere. Mentre scrittrici come Rania Mamoun, poeti come MK Kuol e Safia Elhillo scrivono versi sulla perdita e l’identità
La fotografia di Hassan Kamil
Anche i musicisti sudanesi - da cantanti più conosciuti come Omer Ihsas a rapper emergenti come Flippter - non si sono fatti fermare. Molti utilizzano la musica come supporto emotivo e sociale caricando canzoni di protesta e speranza su piattaforme come Youtube o Spotify. Alcuni sono diventati attivisti per la pace scrivendo canzoni per la fine della violenza e l’unità del Sudan. Altri, invece, stanno trovando il modo di continuare ad esibirsi anche in mezzo al conflitto, utilizzando gli spazi aperti come luoghi per offrire intrattenimento e un senso di solidarietà alle comunità più colpite.
Il conflitto sudanese non è invisibile, è sotto i nostri occhi - nei video caricati ogni giorno, nelle voci che chiedono ascolto - e la cultura sudanese non è solo espressione, ma sopravvivenza. Le atrocità diventano contenuto, la resistenza diventa hashtag, la memoria diventa archivio digitale. Il Sudan è uno specchio che ci obbliga a una domanda scomoda: cosa scegliamo di vedere, e cosa scegliamo di ignorare? In un mondo dove tutto può essere visto, scegliere di guardare — e di non distogliere lo sguardo — diventa un atto politico, ma anche profondamente umano.
Cronistoria:
2003 – Inizia la guerra in Darfur. Le milizie janjaweed, antesignane delle attuali RSF, vengono accusate di genocidio: villaggi incendiati, massacri di civili, stupri di massa. La comunità internazionale denuncia ma fatica a intervenire.
2004–2005 – L’ONU definisce il Darfur “la più grave crisi umanitaria al mondo”. Milioni di sfollati, centinaia di migliaia di morti.
2009 – La Corte Penale Internazionale incrimina l’allora presidente Omar al-Bashir per crimini di guerra e contro l’umanità.
2019 – Dopo mesi di proteste popolari, al-Bashir viene deposto. Il Sudan avvia un fragile processo di transizione democratica.
Aprile 2023 – Esplode il nuovo conflitto tra l’esercito regolare (SAF) e le Forze di Supporto Rapido (RSF), eredi dirette delle milizie janjaweed.
2023–2025 – La guerra devasta il Paese: oltre 10 milioni di sfollati, migliaia di morti, atrocità documentate sui social. El-Fasher diventa epicentro della violenza.
Oggi – La storia sembra ripetersi: vent’anni dopo, le stesse dinamiche di terrore e impunità tornano a colpire il Sudan, mentre la risposta internazionale resta frammentata e insufficiente.


