Istruzione e mercato

Accademia SA

Corsi come prodotti, studenti come clienti, docenti come fornitori. I ranking hanno colonizzato le università

  • 2 ore fa
Università Cina
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Di: Mat Cavadini 

L’università è diventata un’impresa. Non più luogo di sapere, ma fabbrica di titoli. Non più laboratorio di pensiero, ma catena di montaggio di competenze. Non più comunità di ricerca, ma azienda che misura, classifica, monetizza. Ogni corso è un prodotto, ogni studente un cliente, ogni docente un fornitore di servizi. La logica del mercato ha colonizzato l’accademia, trasformando la conoscenza in merce e la ricerca in performance. Bill Readings, già nel 1996, denunciava: «L’università è in rovina, e la sua parola d’ordine è l’eccellenza», un concetto vuoto, misurabile solo attraverso ranking e indicatori quantitativi.

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Harvard eccelle ancora

Alphaville 05.06.2025, 12:35

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  • Mario Fabio

La nuova legge universitaria è l’«accountability». Ogni docente deve produrre articoli, ogni articolo deve generare citazioni, ogni citazione deve alimentare ranking. La ricerca non è più esplorazione, è performance. Non è più rischio, è KPI («Key Performance Indicator», cioè un indicatore chiave di prestazione).

Il sapere si piega alla logica del mercato. Le università competono come brand, i dipartimenti come start-up, i ricercatori come freelance. La conoscenza diventa prodotto, il pensiero diventa servizio, la cultura diventa marketing. La scienza non è più ricerca scientifica, è ricerca di fondi.

La retorica dell’«eccellenza» ha colonizzato ogni discorso accademico. Ma l’eccellenza non è qualità, è punteggio. Non è profondità, è visibilità. Non è originalità, è citabilità. La ricerca si riduce a ciò che può essere misurato, e ciò che non si misura scompare. Filosofia, filologia, poesia: saperi inutili, perché non scalano, non monetizzano, non entrano nei ranking. Eppure come scriveva Martha Nussbaum: «Una società che disinveste dalle humanities è una società che disinveste dalla democrazia».

Pierre Bourdieu, in Homo Academicus, aveva già smascherato la logica di potere che attraversa l’università: gerarchie, titoli, capitali simbolici. Oggi quella logica si è fusa con il management neoliberale. Il giovane ricercatore non può rischiare, deve pubblicare. Non può sbagliare, deve performare. Non può pensare, deve produrre. La libertà accademica si riduce a libertà di compilare moduli e giustificare progetti. La valutazione diventa sorveglianza, la trasparenza diventa controllo. Byung-Chul Han ha scritto: «La società della trasparenza è una società della sorveglianza volontaria»: l’università ne è il laboratorio perfetto.

Il paradosso è che l’università, nata come spazio di libertà, diventa macchina di conformismo. La curiosità, che dovrebbe essere il motore della ricerca, diventa un lusso.

La vera provocazione, oggi, è difendere l’inutilità del sapere. Difendere la ricerca che non serve, che non produce, che non monetizza. Difendere la filosofia, la poesia, la matematica pura, la curiosità sterile. Difendere l’errore, il fallimento, la lentezza. Difendere il diritto di pensare senza dover rendere conto.

Perché l’università non è un’azienda. È un luogo di resistenza. È lo spazio dove il sapere si sottrae alla logica del profitto, dove la conoscenza non si misura in citazioni, dove la verità non si riduce a ranking. L’università è necessaria proprio perché inutile. È necessaria perché difende l’opacità contro la trasparenza, la complessità contro la semplificazione, la libertà contro la performance.

25:06
Il politecnico federale di Zurigo

Il punto. La Svizzera giù nei rankings delle università

Alphaville 07.07.2023, 12:35

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