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Adolescenti in bilico: voci dalla Svizzera italiana

L’adolescenza tra vulnerabilità individuale e responsabilità collettiva: il disagio che non vogliamo vedere

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Di: red./cava 

L’adolescenza non è solo una fase della vita: è una soglia, un terremoto silenzioso, un laboratorio identitario dove si sperimenta il possibile e si teme l’irrimediabile. Umberto Galimberti lo ha scritto con lucidità: «L’identità appena abbozzata non si gioca come nell’adulto tra ciò che si è e la paura di perdere ciò che si è, ma nel divario ben più drammatico tra il non sapere chi si è e la paura di non riuscire ad essere ciò che si sogna.» Se l’adulto teme la fine, l’adolescente teme di non cominciare mai.

In un’epoca in cui il mondo cambia più in fretta di quanto si riesca a comprenderlo, essere adolescenti significa navigare in acque agitate senza bussola. E quando la rotta si perde, il rischio è quello di naufragare nel disagio. Per capire cosa accade davvero nel cuore fragile della gioventù, bisogna entrare nei luoghi dove il dolore prende forma e dove, ogni giorno, qualcuno prova a trasformarlo in possibilità.

Nei Centri Educativi per Minori (CEM) della Svizzera italiana, educatori e terapeuti lavorano con ragazzi che portano addosso ferite invisibili. Nel reportage di Mario Fabio, trasmesso nella rubrica Laser di Rete Due, Laura Bonetti Reina, educatrice del progetto Arco, descrive l’adolescenza come «quella fase terribilmente orribile, ma ricchissima di opportunità». Una definizione che racchiude il paradosso: la crisi come condizione necessaria alla crescita.

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Adolescenti in crisi

Laser 25.08.2025, 09:00

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  • Mario Fabio

Ilan Gheiler Malamud, responsabile terapeutico della comunità Arco e del progetto PH-2020 della Fondazione Don Guanella, parla di «un momento particolarmente complicato nella vita di ognuno di noi», reso ancora più difficile da esordi psicopatologici o arresti evolutivi. Gian Paolo Conelli direttore della Fondazione Amilcare. ricorda che i ragazzi accolti nei CEM «portano con sé un passato, un’esperienza di vita diversa e caratterizzata da eventi spesso pesanti, difficili». Maltrattamenti, abusi, carenze affettive: la biografia di questi giovani è spesso un campo minato.

Ma non basta accogliere. Bisogna entrare in relazione. «La relazione è al centro del nostro lavoro», dice Bonetti Reina, «e deve essere trasparente e sincera». Conelli parla di «valenza terapeutica», di competenze comunicative e relazionali, di capacità di «entrare in relazione in maniera consapevole, senza giudicare». In un mondo che spesso etichetta e condanna, qui si prova a comprendere.

Il progetto Arco è un ponte tra il dolore e la rinascita. Ospita nove adolescenti in regime residenziale, con un percorso intensivo che dura dai 12 ai 18 mesi. «I ragazzi che arrivano ad Arco normalmente stanno piuttosto male, molto male, e quando vanno via non stanno bene, ma stanno molto meglio», sintetizza Gheiler Malamud. Il programma include laboratori, terapie, coinvolgimento dei genitori e una quotidianità strutturata. «Le giornate dei ragazzi sono organizzate dalla mattina alla sera, e loro si occupano anche della gestione della vita dell’appartamento», racconta Bonetti Reina.

Arco è solo una tessera di una rete più ampia. «Parliamo di 300 ragazzi collocati nei CEM», spiega Conelli, «e quindi è importante che questo lavoro sia fatto in maniera coerente per portare avanti una filosofia di accoglienza». Una galassia di strutture che lavora per dare risposte differenziate a bisogni complessi.

Ma quali sono i segnali da non ignorare? Gheiler Malamud parla di isolamento, abbandono scolastico, inversione del ciclo sonno-veglia. E poi c’è la tecnologia, che può essere risorsa o trappola. Ad Arco, i ragazzi lasciano il telefono per tre mesi. «Spesso i social rappresentano come una ragnatela in cui vengono invischiati», dice Bonetti Reina. Solo dopo lo stacco, si può ricostruire un rapporto sano con il digitale.

Il disagio giovanile non è un’anomalia: è uno specchio. «I ragazzi che noi vediamo sono una cartina di tornasole della nostra società», afferma Conelli. La loro sofferenza ci interroga, ci sfida, ci costringe a guardare in faccia le crepe del nostro tempo. «Dobbiamo ascoltare quello che ci stanno dicendo questi ragazzi quando rifiutano la società», ammonisce. Perché dietro ogni «delinquentello» c’è spesso una storia terribile, che chiede solo di essere ascoltata.

Alla fine di questo viaggio, resta una certezza: non si può affrontare la crisi adolescenziale con risposte semplici. Serve un approccio integrato, multidisciplinare, umano. Serve tempo, pazienza, competenza. Ma soprattutto, serve ascolto.

«È una cosa che mi sento di voler condividere», dice Bonetti Reina, «è di chiedere aiuto come genitore, di piuttosto chiedere un aiuto in più.» Un invito che vale per tutti: genitori, educatori, cittadini. Perché il futuro non si costruisce ignorando il dolore, ma accompagnandolo. E forse, proprio lì, nel cuore fragile della gioventù, possiamo ritrovare la parte più autentica di noi.

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