Generazioni in crisi

Adolescenti fragili o adulti smarriti? La sfida di una società post-narcisista

Per capire il malessere dei giovani non basta puntare il dito contro social, videogiochi o “mancanza di limiti”: occorre interrogarsi sulla fragilità degli adulti e sul patto tradito tra generazioni

  • Un'ora fa
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Di: Alphaville/EBo 

Si parla molto del disagio giovanile, spesso con toni allarmistici e ricette semplicistiche: togliere lo smartphone, vietare i social, ripristinare la disciplina. Ma Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, da trent’anni impegnato nello studio dell’età evolutiva, ci invita a spostare lo sguardo. Non è solo l’adolescenza a essere fragile: è la società adulta che vacilla, incapace di reggere la complessità che essa stessa ha generato.

Lancini descrive il passaggio da una società edipica, fondata sul conflitto e sulla colpa, a una società narcisistica, dove il problema non è più trasgredire ma inseguire ideali di bellezza e popolarità. Oggi siamo oltre: nel post-narcisismo, dove «l’altro serve solo a confermare quello che pensiamo noi». In questo scenario, gli adolescenti crescono con una promessa implicita: «Ti ascolteremo, potrai essere te stesso». Una promessa tradita da una clausola nascosta: «A patto che tu non rompa le scatole». Paura, rabbia, tristezza vengono silenziate, rimosse. E quando le emozioni non trovano parola, diventano sintomi: attacchi al corpo, ritiro sociale, pensieri suicidari.

Il disagio non nasce dall’eccesso di attenzioni, ma dal vuoto di relazioni autentiche. «Non è vero che i ragazzi sono stati protetti dalle frustrazioni», spiega Lancini, «gli abbiamo chiesto di non esprimere emozioni che ci disturbano». Così, mentre raccontiamo di averli messi al centro, in realtà abbiamo messo al centro noi stessi: il consenso sociale, la nostra immagine, la nostra tranquillità. Il risultato? Generazioni che si sentono sole «in mezzo agli altri», immerse in una società che promette ascolto ma non tollera la verità affettiva.

Non è internet il colpevole, né i trapper o i videogiochi. La società è «onlife», come ricorda Luciano Floridi: reale e digitale si intrecciano. Gli adulti governano il mondo attraverso i social, ma demonizzano lo smartphone dei figli. Una dissociazione che mina la credibilità educativa. Invece di educare al digitale, si invocano «patti» che privano i ragazzi, mai gli adulti. Così i giovani si rifugiano proprio là dove gli adulti li vorrebbero sottrarre: online. «Se togliamo il cellulare», avverte Lancini, «non li proteggiamo: li spingiamo a cercare altrove, magari nell’intelligenza artificiale, ciò che non trovano in noi».

“Chiamami adulto”

Un viaggio con Matteo Lancini dentro il malessere degli adolescenti di oggi

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    • Alessandra Bonzi e Matteo Lancini

Il corpo, da sempre protagonista dell’adolescenza, oggi è il teatro del dolore. Non più corpo peccatore, ma corpo estetico: mai all’altezza delle aspettative. «Il corpo che arriva in adolescenza», scrive Lancini, «porta brutte notizie: non solo ti dice che sei mortale, ma che non sarai mai abbastanza bello». Da qui disturbi alimentari, cutting, vigoressia, ortoressia. E mentre le ragazze attaccano il corpo per sentirsi adeguate, molti maschi scompaiono: si chiudono in casa, diventano «animali domestici», spariscono dalle piazze. È il suicidio sociale di chi non regge il confronto con modelli irraggiungibili.

Anche la coppia cambia volto. «Il vincolo con l’altro è percepito come tossico», racconta Lancini. In una società che esalta autonomia e performance, il bisogno di dipendenza affettiva viene negato, ma non scompare: si trasforma in relazioni liquide, in solitudine. «Ciò che si avvicina di più alla felicità oggi», confida Lancini, «è una relazione autentica. Ma chi la offre?». Non certo una scuola che continua a valutare con numeri, ignorando che «oggi due lavori su tre non sappiamo nemmeno immaginarli». La scuola potrebbe essere «la palestra delle relazioni», ma resta ancorata a modelli che alimentano competizione e ansia.

Che fare? Lancini non offre ricette, ma una postura: «Imparare a stare». Chiedersi, prima di ogni intervento: «Lo sto facendo per te o per me?». Accettare la complessità, legittimare le emozioni, anche quelle che fanno paura. Non serve sequestrare il cellulare: serve chiedere «Chi sei?», «Ti senti brutto?», «Hai mai pensato al suicidio?». Domande che non inducono il gesto, ma abbassano il rischio. Perché la vera prevenzione non è il controllo, è la relazione. Quella che non addomestica, non impone, ma ascolta senza condizioni.

Gli adolescenti non vogliono essere amati da un terapeuta, ma da chi conta davvero: genitori, insegnanti, adulti capaci di stare nel dolore senza negarlo. È una sfida che riguarda tutti noi. Perché, come scrive Lancini, «stare nel dolore dei figli fa bene non solo a loro, ma anche a noi». E forse ci restituisce la possibilità di un futuro meno fragile, per loro e per noi.

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