Società

Basta con queste etichette. O forse no

Siamo esseri tassonomici: usiamo le parole per definire la realtà in cui viviamo, classificarla, conoscerla e comunicare tra noi. Ma anche per conoscerci e riconoscerci

  • 4 settembre, 08:23
  • 5 settembre, 08:57
Identità di genere, il Ticino ne discute da giorni

Identità di genere, il Ticino ne discute da giorni

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Di: Elena Panciera 

«Neurodivergente, pansessuale, poliamorosa, anarchica relazionale, disabile, trans, non binaria, queer… perché usare tutte queste etichette?», «Io mica sento l’esigenza di proclamare ai quattro venti che sono etero», «Perché rinchiudersi in un’etichetta»... Queste sono solo alcune delle frasi che ho sentito infinite volte, in questi anni. In alcuni casi mi sono sembrati commenti legittimi; in altri ho percepito qualcosa di stridente. Eppure per diverso tempo non sono riuscita a capire cosa c’era che non andava.

Io, che con le parole ci lavoro, sono un po’ fissata con etichette e definizioni. Il mio modo di pensare è verbale; se non vedo una parola scritta non riesco a ricordarla; colleziono parole preferite, e ogni tanto ne invento pure. Negli ultimi anni, addentrandomi nello studio dei femminismi e delle comunità marginalizzate, ho imparato molte nuove parole. Ma allo stesso tempo mi sono mancate spesso. Ho capito che non avere le parole può essere significativo quanto averle. «Ci sono vuoti. Tra la lingua e il mondo. Non tutto ciò che è si ritrova nella lingua. Non tutto ciò che succede trova espressione in essa. Non ogni essere umano può essere nella lingua che parla. E questo non perché non domini la lingua sufficientemente bene, ma perché è la lingua a non essere sufficiente», scrive Kübra Gümüsay in Lingua e essere (Fandango, 2021).

Nello stesso saggio, Gümüsay propone la metafora della lingua come un museo in cui alcune persone stanno dentro teche, e altre le osservano da fuori, le studiano, le classificano, le nominano. Le persone nelle teche sono diverse da quelle che stanno fuori, che sono la maggioranza. Sono strane. Ma questo lo decide chi sta fuori, insieme alle etichette con i nomi da appiccicare a ciascuna teca. Le persone nelle teche non hanno il potere di decidere come definirsi.

Ecco cosa c’era che non andava, cosa strideva nelle frasi che ho riportato all’inizio di questo articolo: il problema non sono le etichette, ma chi le dà, e a chi. Se fa parte delle persone “nominate” o “innominate”.

Le cosiddette “etichette” sono «uno dei modi che la nostra specie utilizza per semplificare la conoscenza e la definizione delle persone», spiega Fabrizio Acanfora (In altre parole. Dizionario minimo di diversità, effequ, 2021). E ci mette in guardia: «particolare cautela va utilizzata sempre quando si decide di racchiudere la complessità di una persona in una parola, e questo perché tale etichetta verrà poi utilizzata spesso in sostituzione di quella complessità».

Francesca Anelli rivendica: «la possibilità di uscire fuori dai bordi delle etichette create da altrə è un diritto, tanto quanto potersi riconoscere in una di esse» (Lo spettro dell’asessualità. Corpi, percorsi e rivendicazioni della comunità asessuale, Eris, 2023). E precisa che le etichette «possono essere rinegoziate, fatte proprie o rifiutate, nonché integrate con nuove informazioni in qualsiasi momento».

Il potere delle etichette, la gioia dell’identità

Perché quindi è così difficile capire l’esigenza di avere delle etichette per (auto)definirsi? Ci sono diverse ragioni, tra cui uno squilibrio di potere tra chi finora le ha date e chi le ha ricevute.

Le parole nuove nascono spesso da una contrapposizione, una differenza: in un mondo popolato solo da persone castane, non avremmo bisogno di specificare il colore dei capelli. Questo bisogno nasce nel momento in cui esiste almeno una persona bionda. Allora useremo quella caratteristica per descriverla e riconoscerla, e forse lo farà anche lei per definirsi. Meno scontato e immediato è che noi, la maggioranza, sentiamo l’esigenza di descrivere i nostri capelli castani, che sono la norma. Ma la persona bionda potrebbe trovare un nome per noi (e la nostra reazione potrebbe essere simile a quella di Elon Musk con “cisgender”, però di questo parleremo un’altra volta). In questo mondo potrebbe esistere anche almeno una persona che non è né bionda, né castana, ma rossa. Questo ci farebbe uscire dal binarismo tricologico, e aggiungerebbe ulteriore complessità tassonomica e lessicale.

Gioie e dolori delle etichette in The Bold Type

La verità è che non tutte le persone sentono il bisogno di definirsi. Di solito non c’è bisogno di definire qualcosa, se è lo standard. Il bisogno aumenta per ciò che percepiamo come “non normale”. «Quello che conta davvero è comprendere il valore che [le etichette] possono avere per una persona in cerca di risposte e di supporto. Non dimentichiamolo, nell’atto di definirsi c’è anche quello di rivendicarsi», spiega Anelli.

L’esigenza può essere anche un’altra, però: «Come fai a trovare la tua gente se non sapete come chiamarvi?», chiede l’autrice. «Ciò che non ha un nome non esiste, e dunque viene riassorbito dalla norma, cancellato».

Perché le etichette sono importanti?

E questo bisogno di autodefinirsi può diventare impellente nel caso in cui l’etichetta imposta dalla maggioranza non sia “neutra”, ma rispecchi quel famoso squilibrio di potere di cui parlavamo prima. «Queste definizioni – frutto di processi di autodeterminazione collettivi – sono utili anche per ribadire che le nostre etichette possiamo crearle solo noi, e non accettiamo quelle medicalizzanti e svalutanti imposte da altri soggetti», conclude Anelli.

Quello che a noi può sembrare inutile o ridondante, per altre persone può essere fonte di conoscenza, libertà, autoaffermazione, riconoscimento. A chi storce il naso di fronte alle etichette, soprattutto altrui, lascio un’ultima riflessione di Gümüsay: «La lingua può delimitare il nostro mondo, ma anche aprirlo all’infinito».

06:46

Una classe multietnica

RSI Cultura 05.07.1993, 13:14

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