Società

Bob Vylan a Glastonbury: microfono o megafono?

Usare il palcoscenico per mandare messaggi politici: il controverso show del duo rap-punk riapre il dibattito sulla libertà d’espressione e il ruolo dei festival musicali nei conflitti mondiali

  • Ieri, 15:00
Bob Vylan Glastonbury Festival
Di:  Emanuela Musto 

Che artisti di ogni genere musicale facciano notizia per i loro schieramenti politici durante i loro concerti non è certo una rarità. Eppure, ha fatto molto discutere quello che è successo qualche giorno fa al Glastonbury, il più grande festival musicale estivo della Gran Bretagna che ogni anno accoglie circa 200’000 spettatori a Worthy Farm, nel sud-ovest dell’Inghilterra

Domenica 28 giugno, il duo britannico Bob Vylan, noto per il suo rap‑punk politico, ha provocato sconcerto sul palco West Holts. Il frontman ha incitato il pubblico a cantare «Death, death to the IDF» (morte all’esercito israeliano), subito dopo slogan come «Free, free Palestine». La BBC ha trasmesso il set in diretta su iPlayer, corredato da un disclaimer, ma senza interrompere la trasmissione. Non si tratta di un caso isolato: poche ore dopo, gli irlandesi Kneecap hanno evocato riferimenti provocatori a Hezbollah e lanciato slogan simili. Già prima dell’evento i controversi rapper irlandesi avevano creato dibattito dopo che diversi parlamentari, tra cui il primo ministro britannico, si erano detti preoccupati dalle loro dichiarazioni filo-palestinesi e dall’incriminazione di Mo Chara per reati di terrorismo, chiedendo agli organizzatori del festival di ritirare la band dalla lineup. «Chi non è d’accordo con la politica dell’evento può andare altrove.» era stata la risposta risoluta di Michael Eavis, fondatore di Glastonbury. Eppure la BBC ha tagliato la diretta ai Kneecap, proprio per paura di violazioni delle linee guida.

 

In passato, la BBC aveva già censurato live di gruppi con posizioni simili, facendo crescere la controversia su quali messaggi possano passare attraverso le loro piattaforme. Tra i presenti molti hanno accolto la performance come un atto di resistenza e solidarietà verso Gaza. Altri invece sono rimasti sconcertati dalla dimensione aggressiva della frase, condannando il messaggio come controproducente e divisivo. Il direttore generale dell’ente britannico, Tim Davie, ha definito il contenuto «profondamente offensivo». La BBC ha ammesso che avrebbe dovuto interrompere la diretta e che l’evento non sarà disponibile in streaming on-demand.

Il primo ministro, Keir Starmer, ha tuonato: «Non ci sono scuse per questo genere di disgustosi discorsi d’odio» e ha chiesto spiegazioni alla BBC sul perché quel messaggio sia arrivato all’utenza. L’Ambasciata israeliana a Londra si è definita «profondamente turbata dalla retorica incendiaria espressa sul palco del Glastonbury Festival», esprimendo «profondo dispiacere» per il loro inserimento nello show. Anche Emily Eavis, organizzatrice dell’evento, ha pubblicato sul profilo ufficiale del festival una risposta all’esibizione del duo punk. «I loro cori hanno decisamente oltrepassato il limite e ricordiamo con urgenza a tutti coloro che sono coinvolti nella produzione del Festival che a Glastonbury non c’è posto per l’antisemitismo, l’incitamento all’odio o alla violenza».

Anche Le risposte istituzionali non si sono fatte attendere. Ne è conseguita un’inchiesta penale aperta dalla polizia per potenziale incitamento all’odio, la revoca dei visti USA da parte del Dipartimento di Stato e la cancellazione della partecipazione a festival come il Radar a Manchester e altri eventi in Francia e Germania. Persino l’ UTA, l’agenzia musicale dei Bob Vylan, li ha mollati.
Dal canto loro, due giorni fa, il duo punk ha preso posizione sull’accaduto con un post Instagram specificando: «Non siamo per la morte di ebrei, arabi o di qualsiasi altra razza o gruppo di persone, siamo per lo smantellamento di una macchina militare violenta. Una macchina in cui i suoi stessi soldati sono stati incaricati di usare una forza letale non necessaria contro civili innocenti in attesa di aiuti. Una macchina che ha distrutto gran parte di Gaza. […]».

Post Bob Vylan

Il binomio “musica e politica” non è una novità. I palchi musicali non sono mai stati neutri e la musica non è mai stata solo intrattenimento. Fin dai primi movimenti pacifisti del Novecento, le canzoni hanno spesso accompagnato – e talvolta guidato – le battaglie sociali. In particolare, il palco è diventato un luogo privilegiato di protesta contro la guerra, trasformando concerti e performance in veri e propri manifesti politici. Tra gli episodi più iconici spicca John Lennon, che con Give Peace a Chance nel 1969 diede voce al movimento contro la guerra in Vietnam rendendo il brano un inno universale del pacifismo. Negli anni Duemila, anche Eddie Vedder, frontman dei Pearl Jam, ha usato il palco come cassa di risonanza per le sue critiche alla guerra in Iraq e alle scelte dell’amministrazione Bush. I suoi interventi taglienti e diretti durante i concerti hanno confermato quanto la musica rock possa ancora essere uno spazio di dissenso.

Non sono mancati esempi nel mondo del pop. Beyoncé, durante la sua esibizione al Super Bowl nel 2016, ha portato in scena riferimenti visivi ai Black Panthers e alla brutalità della polizia americana, intrecciando nel suo concerto le questioni razziali alla critica della violenza sistemica. Nel suo ultimo concerto a San Siro, Springsteen ha attaccato Trump. Di recente, anche artisti come Massive Attack, Fontaines D.C., Macklemore, Rage Against the Machine, Green Day e The Weeknd (per citarne alcuni) hanno espresso solidarietà a Gaza, ma evitando termini violenti.

Bob Vylan non sono un’eccezione: sono l’ultima, controversa voce di un nutrito coro di artisti che hanno scelto di usare la musica come strumento espressivo delle loro posizioni politiche. Richieste di giustizia e solidarietà nei confronti della Palestina trovano spazio nelle grandi piattaforme musicali, ma il linguaggio aggressivo solleva questioni su dove tracciarne i limiti. Il confine tra proteste legittime e incitamento all’odio sembra essere sempre più sottile. Andrebbe fatta una riflessione sulla differenza tra il criticare un’azione militare urlando «Free Palestine» e «Stop Gaza genocide» e invocare violenza («Death to IDF»). Le reazioni – legali, politiche e diplomatiche – riflettono una società divisa, che stenta a trovare un equilibrio tra libertà di espressione e tutela delle minoranze.

Rimane la domanda: nelle arene musicali contemporanee, quanto può spingersi un linguaggio provocatorio prima di diventare inaccettabile?

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