Salute

Medicina di genere e neurodegenerazione

Perché l’Alzheimer non è uguale per tutti

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Di: Clara Caverzasio 

Giovane adulto, maschio, bianco. È questo il paradigma su cui si è costruita fin qui tutta la medicina. Nella convinzione che la biologia umana fosse la stessa in entrambi i sessi e che la donna sia in sostanza un piccolo uomo, diversa solo nell’apparato riproduttivo, un uomo in miniatura con utero e ormoni. Un pregiudizio che ha avuto ripercussioni tangibili sulla salute di chi non rientra in quel modello: prime fra tutte le donne, da sempre fortemente sottostimate negli studi clinici, epidemiologici, persino nella diagnostica, ed escluse dalle sperimentazioni farmacologiche.

Solo a partire dalla fine degli anni ’90 la medicina ha iniziato a considerare il genere
– inteso non solo come sesso biologico, ma anche come insieme di fattori culturali e sociali – come una variabile fondamentale nel funzionamento dell’organismo. Da questa consapevolezza è nata la medicina di genere, un approccio che punta proprio a comprendere le differenze nell’insorgenza delle malattie nei diversi sessi, e di conseguenza adeguare terapie e strategie di prevenzione.

La cardiologia è stata uno dei primi ambiti a evidenziare queste differenze. Oggi sappiamo, ad esempio, che l’infarto nelle donne può presentarsi con sintomi “atipici” come mal di schiena, nausea o sudorazione, che spesso vengono sottovalutati o confusi con l’ansia, portando a ritardi nella diagnosi e nel trattamento. Ma nonostante le evidenze scientifiche, persistono ancora pregiudizi e sottovalutazioni. Con il risultato di impedire lo sviluppo di strumenti di diagnosi, cura e prevenzione adeguati alle particolarità della patologia cardiaca nella donna. E questo contribuisce a una mortalità femminile più alta rispetto agli uomini: come sottolineato anche dalla Società Europea di Cardiologia ((https://www.escardio.org/The-ESC/Advocacy/women-and-cardiovascular-disease?utm_source=chatgpt.com), le malattie cardiovascolari come l’infarto sono ormai il big killer nel sesso femminile, con un decesso ogni dieci minuti.

Un altro ambito in cui queste differenze si stanno rivelando cruciali è quello delle patologie degenerative del sistema nervoso. In particolare dell’Alzheimer, una malattia neurodegenerativa debilitante che rappresenta la forma più comune di demenza. Si è cioè scoperto che le differenze di sesso e di genere hanno un profondo impatto anche sulle malattie del cervello e della mente.
Nel mondo ogni tre secondi una persona sviluppa una forma di demenza, e nella maggior parte dei casi si tratta di una donna (la percentuale è approssimativamente doppia rispetto a quella degli uomini).
Non è un caso che il primo caso di malattia di Alzheimer (AD) diagnosticata da Aloysius “Alois” Alzheimer nel 1906 sia stato quello di una donna: Auguste Deter.
Non solo: la malattia di Alzheimer si manifesta, progredisce e viene percepita in modo diverso nei due sessi. Eppure, per anni è stata trattata come una patologia “neutra”, universale, identica per tutti.

Questo approccio ha avuto conseguenze importanti: diagnosi tardive, sintomi fraintesi, terapie non ottimali. A lanciare l’allarme è la Women’s Brain Foundation, un’organizzazione internazionale senza scopo di lucro con sede in Svizzera, che da anni promuove la ricerca sulle differenze di sesso e genere nelle malattie cerebrali e mentali. Uno studio pubblicato nell’aprile 2025 su Nature Reviews Neurology (Alzheimer’s Disease Seen Through the Lens of Sex and Gender; https://www.nature.com/articles/s41582-025-01071-0) e guidato dalla neuroscienziata Antonella Santuccione Chadha mostra quanto queste differenze siano rilevanti, e quanto ignorarle significhi mettere a rischio l’efficacia delle cure.
Una ricerca rivoluzionaria che sottolinea l’impatto significativo di sesso e genere sulla patogenesi, la progressione, la diagnosi e il trattamento della malattia di Alzheimer, che colpisce in modo sproporzionato le donne .

Questo nuovo lavoro, frutto di una collaborazione mondiale tra ricercatori con background diversi, evidenzia dunque l’urgente necessità di approcci di medicina di precisione che integrino queste differenze. Le ricerche, basate su studi di imaging, analisi post-mortem e ricerche comportamentali su individui in diverse fasi dell’AD, mostrano infatti chiare evidenze di differenze di genere:
«Le donne con AD – scrive Antonella Santuccione Chadha, fondatrice di WBF e autrice principale dello studio, sono più depresse e presentano sintomi psicotici, mentre gli uomini sono più apatici. La presenza di depressione e ansia potrebbe essere erroneamente attribuita a cause psichiatriche, piuttosto che all’AD, e gravi sintomi neuropsichiatrici sono solitamente un criterio di esclusione per gli studi clinici».

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  • Marco Pagani

Le donne con Alzheimer inoltre tendono ad avere una perdita sinaptica maggiore in aree cruciali del cervello, come l’ippocampo e in particolare l’area entorinale. Dal punto di vista clinico, ciò si traduce in problemi di memoria e nell’esecuzione di compiti quotidiani. Gli uomini invece, nelle prime fasi della malattia, spesso presentano comportamenti sociali inappropriati, apatia e alterazioni emotive, più che deficit mnemonici.

Queste differenze si riflettono anche nella diagnosi: una donna con Alzheimer può essere scambiata per una persona depressa o ansiosa, mentre un uomo con comportamenti bizzarri può essere interpretato come affetto da un disturbo psichiatrico. In entrambi i casi, la mancata comprensione del quadro clinico ritarda l’inizio delle terapie, che, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia, sono fondamentali per rallentarne la progressione.

A complicare ulteriormente il quadro, c’è il fatto che le donne sono state per decenni sottorappresentate negli studi clinici, soprattutto in quelli relativi a farmaci innovativi come le immunoterapie. Le ragioni sono molte: età più avanzata al momento della diagnosi, maggior numero di comorbidità, ma anche — e soprattutto — un pregiudizio strutturale secondo cui il corpo maschile è più “semplice” da studiare.

Questo significa che i farmaci oggi disponibili sono stati sviluppati prevalentemente su modelli maschili e che spesso non si conosce l’effettiva risposta delle donne a questi trattamenti. Alcuni studi recenti stanno rivelando che le differenze ormonali, come quelle legate alla menopausa o alla gravidanza, potrebbero influenzare non solo la comparsa della malattia, ma anche l’efficacia delle cure.

«Sebbene poche organizzazioni al mondo vogliano sminuire il valore della medicina basata sul sesso e sul genere, eliminando la necessità di una scienza diversificata e inclusiva, la WBF rimane ferma nel produrre prove che dimostrino la fondatezza di questo approccio. I dati parlano da soli e ignorarli non è solo un fallimento scientifico; è negligenza», afferma la Dott.ssa Santuccione Chadha.

Insomma, dalla cardiologia alla neurologia, la medicina di genere dimostra che l’uguaglianza di trattamento non equivale all’equità di cura. Nell’Alzheimer, dove le donne pagano il prezzo più alto, riconoscere e studiare le differenze di sesso e di genere è la chiave per terapie realmente personalizzate, diagnosi più tempestive e prevenzione mirata. Solo spostando il baricentro dal “paziente medio” al “paziente reale” – con il suo corredo biologico e sociale unico – si potrà trasformare la sfida dell’Alzheimer in un terreno di innovazione e giustizia sanitaria.

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La Svizzera e la medicina di genere

Alphaville 17.05.2024, 12:35

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  • Enrico Bianda e Francesca Rodesino

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