Gli influencer, qualcuno dice che non tirano più. Non convertono più. Chiara Ferragni ha i conti in rosso, e anche gli altri non se la passano benissimo. La loro età dell’oro è finita. Oppure no?
Forse le profezie apocalittiche non sono poi così fondate: ci sarà ancora bisogno di influencer, nel prossimo decennio. Forse, però, non saranno quelli a cui siamo abituati. Almeno a sentire Lucio Lamberti, professore di marketing al Politecnico di Milano, a capo di una squadra di ricerca che sta investigando sugli influencer virtuali e il loro effetto sul pubblico. Già, virtuali: software, intelligenze artificiali, avatar, chiamateli come volete.
Lamberti ha raccontato ad Alphaville cosa rende davvero efficace un influencer virtuale, a partire dall’aspetto e dal modo di comunicare.
Lucio Lamberti: Abbiamo realizzato quella che si chiama survey sperimentale, mostrando a un campione di persone diversi influencer virtuali. In alcuni casi i personaggi virtuali avevano semplicemente sembianze umane, in altri casi anche un tocco di emozioni, nelle espressioni del viso, nel modo di porsi, nel modo di parlare o interagire con il partecipante. Il risultato? Se il personaggio più “robotico” è stato ritenuto sufficientemente in grado di creare affezione nel 63% dei casi, questo 63% è diventato 74% nel momento in cui abbiamo inserito la componente emozionale. Insomma, basta poco – o relativamente poco – per colmare la distanza percepita tra l’artificiale e l’umano.
Mattia Pelli: Quindi, si può dire che questo tipo di avatar virtuale effettivamente funzioni, dal punto di vista del marketing? E funziona in modo in modo simile – per risultati ed efficacia – rispetto a una persona reale?
In linea di principio, buona parte delle interazioni che abbiamo con altri esseri umani per questioni legate alla raccolta di informazioni, alla fine sono, appunto, semplice raccolta di informazioni, abbastanza scevra da considerazioni di natura emotiva. Quindi il fatto di avere dall’altra parte un soggetto deliberatamente virtuale, che però ci dà le informazioni che cerchiamo, è già un pezzo importante.
Se poi a questo aggiungiamo un po’ di capacità empatica, un po’ di capacità, da parte di questo agente virtuale, di interpretare l’essere umano, ecco che abbiamo l’evoluzione della specie. Nel senso che questa in un certo senso è l’evoluzione delle mascotte del passato: l’omino Michelin, Calimero, erano fondamentalmente delle icone abbastanza fisse. Se vogliamo erano dei simboli, delle oggettivazioni dei valori aziendali. Invece i virtual influencer sono dei personaggi dinamici: non solo un Calimero o un omino Michelin, ma un omino Michelin o un Calimero che in qualche modo possono parlare con noi.
Postano, commentano, costruiscono storie. Fondamentalmente non rappresentano un marchio, ma recitano una parte all’interno del flusso delle conversazioni che una marca, per esempio, ha con i consumatori.
Da Calimero agli avatar
Alphaville 01.07.2025, 11:45
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Ci può fare qualche esempio di influencer virtuale? Come sono fatti?
Dunque, ci sono dei virtual influencer che sono veramente degli influencer, cioè, per intenderci, dei modelli. Quella con maggior seguito – uso il femminile perché il personaggio è femminile – si chiama Lil’ Miquela, ha veramente milioni di follower in giro per il mondo ed è un’apprezzatissima testimonial di prodotti di moda. Ci sono state campagne in cui è stata messa insieme a una top model reale all’interno di un video, proprio per mostrare il legame tra virtuale e umano. Poi, sempre più frequentemente, le aziende si costruiscono una specie di avatar del brand: un influencer virtuale che diventa testimonial di tutte le campagne di comunicazione, ma anche il chatbot che risponde alle nostre domande quando visitiamo il sito dell’azienda, e così via.
Si parla di circa 10 miliardi di dollari di volume d’affari stimato, per questo tipo di virtual influencer. Quindi, è un fenomeno da osservare, anche perché l’intelligenza artificiale sta migliorando in misura esponenziale la loro capacità di azione.
Per adesso, è ancora relativamente semplice riconoscere immagini e video “artificiali”, ma presto una somiglianza totale con la realtà verrà raggiunta. Giunti a quel punto, cosa succederà? Le aziende genereranno influencer fittizi, senza rivelare che questi ultimi non sono umani? Qui il confine diventa quasi filosofico.
Una domanda complicatissima che tocca temi colossali. La prima questione è: il realismo, a che livello può arrivare? Da un punto di vista pratico, già oggi ci sono tanti esperimenti che evidenziano come l’intelligenza artificiale sia in grado di generare immagini statiche che sono perfettamente in grado di ingannare l’umano. Sui video la situazione è un po’ diversa, perché le espressioni facciali, per esempio, tendono a essere difficilmente replicabili. Perché, è vero che noi studiamo da decine di anni quelle che sono le cosiddette espressioni-base: la gioia, la tristezza… quelle sostanzialmente legate ai personaggi del cartone animato Inside Out, per intenderci.
Però queste emozioni… sono emozioni tra virgolette. Cioè, dietro a un sorriso c’è sì un movimento dei muscoli facciali, ma c’è anche quella che noi chiamiamo la nostra esperienza di vita, che rende il sorriso di ciascuno di noi unico. Se io metto un sorriso standard su un volto virtuale, questo sorriso viene percepito come “meno vero”, e genera un fenomeno che viene chiamato “effetto Uncanny Valley”, per cui quando qualcosa è molto simile all’umano, ma allo stesso tempo leggermente diverso, crea in noi un senso di sconcerto, di fastidio. Pensate a quelle bambole iperrealistiche che però magari hanno uno sguardo vuoto… ci fanno paura. Allora fondamentalmente esiste un discrimine tra il voler simulare la realtà e voler fingere di essere reali. Fingere di essere reali ed essere, se mi passa il termine, beccati crea disaffezione da parte di chi guarda.
Così arriviamo all’altro punto, e cioè l’opportunità, sia etica che di business, di dichiarare di essere artificiali. E anche il fatto di, come dire, voler affermare l’artificialità come un valore, cioè: non far sembrare agenti virtuali totalmente umani. Anche perché uno potrebbe chiedersi: perché ho bisogno di un virtuale, se posso avere un umano? Quindi, mantenere un’identità artificiale ben dichiarata.
Dal lato dell’utente il tema fondamentale è quello dell’educazione digitale. Possiamo pensare di proibire i deep fake per legge? Non credo. Quello che possiamo provare a fare è depotenziare i deep fake, aumentando la cultura digitale e la capacità di discernimento di chi è esposto a queste notizie.