Nel dibattito sul conflitto israelo-palestinese, la censura non si presenta più con divieti espliciti. Si insinua sotto forma di stigma, di etichette che paralizzano il pensiero. Oggi, criticare la politica israeliana equivale troppo spesso a essere accusati di antisemitismo. Non importa la qualità dell’argomentazione, la sua aderenza ai fatti, la sua tensione etica: basta una parola fuori posto, e il discorso si chiude. Non si risponde, si squalifica.
Valentina Pisanty, nel suo libro Antisemita. Una parola in ostaggio (Bompiani, 2025), analizza con lucidità questa deriva. Il cuore della sua riflessione è il sequestro semantico del termine “antisemita”, trasformato da concetto storico a strumento politico. «Negare la storicità dell’antisemitismo significa farsi catturare dalla narrazione razzista», scrive. E aggiunge: «Gli antisemiti essenzializzano gli ebrei riconducendoli a uno stereotipo scolpito nell’eternità. Per reazione, molti ebrei essenzializzano gli antisemiti, replicandone l’operazione a valori invertiti».
Il risultato è una spirale identitaria che impedisce ogni analisi storica, ogni distinzione tra antisionismo e antisemitismo. La confusione non è casuale: è funzionale. Serve a blindare il discorso, a impedire che si parli di Palestina senza passare per il tribunale morale dell’accusa.
Gaza davanti alla storia. Shoah, terrorismo e antisemitismo
Laser 08.10.2024, 09:00
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La definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), adottata nel 2016, è diventata il perno di questa strategia. Pisanty ne ricostruisce la genesi e ne mostra le ambiguità. Gli esempi allegati alla definizione — spesso più influenti del testo stesso — orientano il senso comune verso un’equiparazione tra critica a Israele e odio antiebraico. Il linguaggio si fa prescrittivo, non descrittivo. Non spiega, ma rac-comanda.
Herbert Marcuse lo aveva previsto già nel 1964, parlando di «linguaggio rituale-autoritario» che «non dimostra e non spiega, bensì comunica decisioni, dettati, comandi». Un linguaggio che «identifica la verità con la verità stabilita», e produce «proposizioni analitiche autovalidantisi». In altre parole: formule magiche che chiudono il pensiero.
Questa chiusura non riguarda solo il linguaggio. Riguarda la memoria. Stefano Levi Della Torre, in un articolo su Gli asini (n. 113/2024), distingue due visioni della Shoah: una che ne fa un monito universale contro ogni barbarie, l’altra che la sacralizza come evento unico e incomparabile. La prima apre, la seconda chiude. E nella chiusura, si costruisce un’identità vittimaria che non ammette confronto, né critica.
Walter Benjamin, nelle sue Tesi sul concetto di storia, scriveva: «In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla». Oggi, quel conformismo si presenta sotto forma di definizioni blindate, di memorie sacralizzate, di parole sequestrate. E il passato, invece di illuminare il presente, lo opacizza.
Pisanty nota che questa costruzione linguistica è andata «di pari passo con la scalata al potere delle destre mondiali negli ultimi vent’anni». Il parallelismo con l’epoca di Benjamin non è solo suggestivo: è inquietante. Perché mostra come il controllo del linguaggio sia sempre il primo passo verso il controllo del pensiero.
Tutto questo a riprova del fatto che il conflitto israelo-palestinese non si combatte solo sul terreno. Si combatte anche nel vocabolario. E chi controlla le parole, controlla la possibilità stessa di pensare. Per questo, oggi più che mai, serve una riflessione critica, scomoda, radicale. Non per negare la storia, ma per restituirle la complessità. Non per giustificare l’odio, ma per impedire che il pensiero venga ridotto a slogan.
Perché quando il linguaggio si chiude, la democrazia si spegne. E il silenzio, in politica, non è mai neutro.

Israele/Palestina: si può uscire dall’apocalisse?
Chiese in diretta 31.08.2025, 08:30
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