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Com'è umano lei!

Fantozzi, archetipo letterario del Novecento

  • 12.01.2023, 10:22
  • 14.09.2023, 09:00
FOTO DI COPERTINA Fantozzi.jpg
Di: Marco Alloni 

Il ragionier Ugo Fantozzi, invenzione totale della mente di Paolo Villaggio, ha dovuto pagare un solo limite, lo stesso del suo “gemello di sventura” Giandomenico Fracchia: essersi prestato al genio comico e popolare del suo autore senza mai conquistare gli scranni della piena letterarietà. Fosse uscita, la sua figura paradigmatica, diremmo archetipica, da una penna “alta” come quella di Rabelais, oggi non parleremmo di un personaggio della comicità italiana del Dopoguerra bensì di un autentico eroe della letteratura novecentesca, non solo italiana ma europea.

“Comico” e “popolare” sono infatti, per il gusto letterario borghese – da sempre sensibile al profondo solo o soprattutto se tragico – categorie del letterario che sconfinano nel pamphlettistico e nel caricaturale, mentre è cosa nota che il grottesco sia da sempre una delle cifre costitutive del moderno, a partire da Rabelais e Cervantes per arrivare ai nostri Tozzi, Calvino e Savinio e, in ambito internazionale, Rushdie, Garcia Marquez e altri.

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Carta bianca - Paolo Villaggio

RSI Carta bianca 08.12.1988, 16:44

Non serve dunque richiamare la nota figura dell’“inetto” o del “disadattato” per ricollocare Villaggio e il suo Fantozzi nel cerchio della letteratura che conta. La caratura ormai paradigmatica di quel personaggio – diciamolo pure, di quell’eroe sfortunato, tragicomico – ve lo collocherebbe naturaliter se solo un certo idem sentire borghese non inclinasse alla “svalutazione” di figure emblematiche ovunque esse suscitino in primo luogo divertimento e adesione di massa.

D’altra parte la letteratura, oltre al cinema e alla televisione, non si esaurisce e non si conferma soltanto nella cosiddetta “letterarietà”, cioè nel livello linguistico, formale, strutturale, narrativo e poetico che un’opera dovrebbe possedere per assurgere a qualche Parnaso: tra i suoi miracoli più fecondi vi è anche quello di aver creato figure e personaggi indimenticabili, da quelli più ovviamente conclamati come Don Chisciotte o Raskolnikov a quelli, meno “nobili” ma altrettanto memorabili, come Pinocchio, Pierino, l’onorevole Peppone e, appunto, Fantozzi e Fracchia. E cosa significa sapere creare o inventare un personaggio? Significa, in primo luogo, come è di fatto compito di ogni letteratura degna di attenzione, elevare una condizione di normalità a una condizione di archetipo.

Ulisse è l’uomo del viaggio e della ricerca, ma con Omero diventa l’emblema di tutti i viaggiatori dell’universo e del tempo, Emma Bovary è la donna che sospira una vita più emozionante, ma con Flaubert diventa l’emblema della donna “innamorata dell’amore”, Don Chisciotte è lo sradicato che cerca una nuova dimensione per il suo io, ma con Cervantes diventa l’emblema del sognatore che antepone la propria immaginazione anche alle evidenze più concrete della realtà.

Con Fantozzi siamo al piano di uno status sociale e professionale elementare ma non meno significativo di quelli sopra richiamati: Ugo Fantozzi è l’incarnazione dell’impiegato sottomesso, è la sommatoria ideale di tutti gli impiegati sottomessi del mondo, non solo in Italia ma in tutto l’Occidente post-industriale. Grazie al genio di Villaggio, assurge però, appunto, a sua volta a emblema dell’impotenza, della rassegnazione, dell’ansia repressa di ribellione, della meschinità sopraffatta da sbalzi di eroismo autolesionistico, tutti caratteri in cui lo stuolo al completo dei subalterni si ritrova nei modi più perentori.

Fantozzi va tuttavia anche oltre il cosiddetto caratterismo: egli ci racconta, con impietosa lucidità, la caratura medesima del moderno, alienato, umiliante rapporto tra classi dirigenti e sottoposti. È dunque, ben al di là dell’appartenenza comica, una sottile e spregiudicata condanna del potere: una messa alla berlina del perdente Fantozzi, sì, purché la sua sconfitta sia chiaramente riconoscibile come risultante della spietatezza del potere.

Certo, la famigerata “sfiga” di Fantozzi, la sua celeberrima “nuvola di Fantozzi”, l’apparente “felicità” con cui folle di colleghi assecondano le direttive del potere. Ma tutto questo, lungi dal raccontarci una fatalità astratta dall’effetto comico, nei testi di Villaggio si presenta in filigrana come qualcosa di molto più eloquente: come la stessa fatalità del potere, che perseguita gli ultimi fino al parossismo di esporli alla sconfitta anche nelle situazioni dove sembrerebbero poter trovare una forma di riscatto.

Rileggere e rivedere Fantozzi come un importante archetipo del nostro tempo e del nostro sistema di produzione è dunque un’esperienza che travalica il semplice divertimento, poiché ci proietta in una dimensione del pensiero e della morale in cui molte porte sono probabilmente ancora da aprire. E dove l’aspetto meno ludico dell’opera di Villaggio rischia di dischiudere aspetti abissali e mostruosi dello stesso agire del potere sui suoi subalterni, sudditi, schiavi e sottoposti.

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