Cambiamenti climatici

Il cuore dell’Artico sotto assedio

La North Water Polynya, cuore pulsante dell’Artico, rischia di collassare per il riscaldamento globale. Il reportage di Nicola Scevola racconta come la crisi di questo ecosistema minacci comunità Inuit e clima mondiale

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Di: Laser/Mat 

L’Artico è il laboratorio del futuro climatico del pianeta. Qui, sul tetto del mondo, un fenomeno unico sta vacillando: la North Water Polynya, un mare aperto grande quanto l’Austria che rimane liquido anche quando tutto intorno è ghiaccio.

Gli Inuit la chiamano Pikialasorsuaq, “grande sorgente”. È un cuore che pompa vita: porta nutrienti in superficie, produce ghiaccio, alimenta correnti oceaniche e offre rifugio a narvali, orsi polari e trichechi. Senza di essa, la catena alimentare artica collasserebbe.

Ma il riscaldamento globale sta incrinando questo equilibrio. La barriera di ghiaccio dello stretto di Nares fatica a formarsi: se cedesse, la polynya si riempirebbe di iceberg, bloccando la luce e soffocando il plancton. «Non sappiamo davvero cosa succederà», avverte la glaciologa Ruth Mottram, intervistata da Nicola Scevola nel reportage trasmesso in Laser (e realizzato grazie ad Arctic Times Project, organizzazione no‑profit che promuove progetti di giornalismo nell’Artico).

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La fabbrica di ghiaccio che sta sparendo

Laser 14.11.2025, 09:00

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Le conseguenze non riguardano solo l’Artico. «È il cuore dell’oceano», ricorda Malene Simon Hegelund, biologa marina. Se smettesse di fabbricare ghiaccio, la Corrente del Golfo si indebolirebbe, con effetti devastanti sul Nord Europa.

A Qaanaaq, villaggio groenlandese di 500 abitanti affacciato sulla polynya, i cambiamenti sono già realtà. Il ghiaccio arriva tardi e si rompe presto. «La stagione di caccia e pesca si accorcia», racconta un cacciatore. Periodi di ghiaccio troppo sottile per la slitta e troppo spesso per la barca isolano la comunità; alcuni hanno dovuto abbattere i cani da slitta per fame.

La pesca, pilastro dell’economia locale, è in crisi. John Olsen, direttore di Royal Greenland, spiega che la produzione è dimezzata: «Da 150 tonnellate siamo scesi a 75. Se continua così dovrò licenziare ancora». Anche il presidente dell’associazione di caccia e pesca denuncia: «Il clima è sempre più imprevedibile. Vento e tempeste non permettono più di lavorare come una volta». L’unico segnale inatteso è l’aumento dei merluzzi polari, forse preludio all’arrivo di nuove specie, ma con effetti incerti sull’ecosistema.

La polynya è anche un ingranaggio delle correnti globali. A -40°C l’acqua gela, i cristalli vengono spazzati via dai venti e i sali rendono l’acqua più densa, facendola affondare e spingendo in alto gli strati profondi. È un motore che regola gli oceani. Se si fermasse, il mondo intero ne sentirebbe il colpo. Richard Payton, dell’associazione Qikiqtani, segnala lesioni mai viste su foche e narvali, forse dovute a specie aliene introdotte da nuove rotte e attività minerarie.

Il riscaldamento polare corre quattro volte più veloce che altrove. La scomparsa della North Water Polynya sarebbe un colpo al cuore del pianeta, con ripercussioni su correnti, clima ed ecosistemi.

Per evitarlo servono politiche globali di riduzione delle emissioni e il coinvolgimento diretto delle comunità Inuit, custodi di una conoscenza millenaria. Solo un approccio che unisca scienza e sapere tradizionale può salvare questa “grande sorgente”.

La North Water Polynya è un avvertimento: ciò che accade nel remoto Artico si riflette ovunque. Preservarla non è solo un dovere verso chi vive tra i ghiacci, ma una necessità per la sopravvivenza dell’intero pianeta. Il destino di Pikialasorsuaq è intrecciato al nostro.

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