Elzeviro

Il desiderio ingannevole dell’immediatezza

Il miraggio dell’indipendenza: quando il desiderio di libertà ci allontana dal benessere

  • Ieri, 17:00
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Di: Tommaso Giacopini 

Viviamo immersi in un continuo flusso di desideri, di esigenze, di voglie. Alcuni di essi sono autentici, radicati in una necessità profonda e coerente con il nostro benessere, e quando soddisfatti, conducono a un senso di pienezza e stabilità emotiva. Tuttavia altri di questi desideri, forse proprio quelli che percepiamo come più profondi e basilari, rischiano di rivelarsi illusioni: chimere che promettono felicità e liberazione, ma che, una volta raggiunte, non portano altro che una persistente insoddisfazione.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare non è per nulla banale comprendere cosa ci fa stare bene e cosa no, non in un senso duraturo, reale e profondo. Prendiamo un esempio semplice: il desiderio di posticipare la sveglia e restare a letto tutta la mattina. A primo acchito ci potrebbe sembrare una buona idea, un modo per prenderci cura di noi stessi, per coccolarci, per volerci bene. Ma a lungo andare non è forse proprio l’alzarci ogni giorno e dare il nostro piccolo contributo al mondo a darci le più grandi soddisfazioni? Se avessimo ascoltato il nostro desiderio immediato di posticipare la sveglia e restare a letto avremmo avuto sì, una piccola gratificazione istantanea, ma a scapito della soddisfazione più grande raggiunta dopo una giornata di buon lavoro. Spesso è proprio così, la gratificazione nell’immediato porta col passare del tempo a un senso di insoddisfazione.

Ma qui mi interessa parlare di un desiderio di gran lunga meno banale dello scorrere il dito sullo schermo del nostro smartphone per posticipare la sveglia in un lunedì mattina di pioggia. Mi interessa parlare del desiderio profondo di indipendenza. E qui qualcuno si chiederà, beh, che c’è di male nel voler essere indipendenti?

In molti nutriamo l’illusoria convinzione che quando finalmente arriverà il giorno in cui non dipenderemo da nulla e da nessuno saremo perennemente sereni. E così ci ritroviamo ad anelare all’indipendenza a tutti i costi, con la persistente determinazione di poter vivere al di sopra degli alti e bassi di una vita dalla natura capricciosa e lunatica. Ma è davvero così?

La questione è complessa, così come altrettanto complessa dovrebbe essere la risposta a cui cerco di arrivare con la scrittura di questo articolo. L’altro giorno ho sentito dire in un’intervista che le domande complesse non hanno risposte, ma solo un insieme di processi di ragionamento, che tentano di approssimarsi a un’idea di verità. Ecco, il mio tentativo di approssimarmi il più possibile a una verità mi porta a riflettere sui processi evolutivi del nostro organismo come esseri umani.

Una psicologia scritta nella biologia

Fondamentalmente il nostro sistema emotivo, per quanto ci piaccia trascurare questo fatto (di per sé intrascurabile), non è cambiato nell’arco delle ultime decine di migliaia di anni. Il modo in cui proviamo, riconosciamo e reagiamo alle emozioni è rimasto sorprendentemente stabile, immutato. Ecco perché le emozioni in quanto impulso primario non sono cambiate molto, usiamo lo stesso sistema istintivo per reagire a un pericolo reale (come potrebbe essere l’incontro inaspettato con una belva feroce) e a un pericolo solamente immaginato (come il pensiero che perderò tutti clienti e mi troverò senza lavoro). Perché questo è importante?

È importante perché la nostra psicologia è di fatto direttamente correlata alla nostra biologia, e se il nostro sistema emotivo essenzialmente non è cambiato, dobbiamo ragionare in termini evolutivi per comprendere ciò che ci fa stare bene e ciò che invece rappresenta un ostacolo al nostro senso di appagamento, soddisfazione e serenità.

Per far fronte alle calamità del mondo preistorico, che si tratti di difenderci da un meteorologico, dall’attacco di una tribù nemica o da un branco di lupi affamati, o che si tratti invece della “semplice” sopravvivenza, abbiamo dovuto fare affidamento al gruppo, alla comunità. L’essere umano adulto è già di per sé fisicamente piuttosto vulnerabile, ma questo è ancora più vero per la sua prole, nasciamo infatti completamente incapaci di difenderci e incapaci di difenderci lo rimaniamo per un tempo molto lungo per i canoni del regno animale. L’unica forza a nostra disposizione è diventata la capacità di organizzarci in gruppi, strategizzare, in pratica, comunicare con gli altri. La forza del gruppo è diventata la garanzia di sopravvivenza dell’individuo.

Il gruppo ha però una spietata regola, perché possa esistere nel tempo è necessario che sia composto da individui che pongano la sopravvivenza del gruppo come valore più alto della propria. Questo è particolarmente chiaro se si pensa al nucleo famigliare stretto, in cui il genitore si sacrificherebbe senza esitazione per la salvezza del proprio figlio. Se questo elemento fondamentale venisse a mancare, ecco che l’individualismo porterebbe alla totale disfatta del gruppo, con la conseguente estinzione dell’essere umano, in quanto individualmente debole. Se ciò non è avvenuto è perché come specie siamo stati in grado di mettere noi e i nostri bisogni individuali in secondo piano. E questa caratteristica, tipicamente umana, non è affatto cosa banale.

Si pensa che questa caratteristica così peculiare sia dovuta al fatto che come specie abbiamo saputo sviluppare delle finzioni collettive, dei concetti che ci uniscono sotto una stessa bandiera, concetti quali nazione, ideologia, denaro, religione e molte altre finzioni, frutto fondamentalmente del nostro linguaggio e del nostro senso di appartenenza. Grazie a questa capacità unica nel regno animale siamo sopravvissuti a catastrofi di sorta e siamo giunti fino ad oggi.

Il bisogno di connessione

Se questo meccanismo è così fondamentale alla nostra sopravvivenza significa che è profondamente programmato nel nostro organismo, e che attività che vanno in questa direzione ci faranno stare bene, mentre attività che vanno nel senso opposto ci faranno soffrire, così funziona la biologia evolutiva.

Se tutto ciò è vero, allora non possiamo ignorare che l’anelito all’indipendenza totale – così diffuso nel pensiero contemporaneo – si scontra con una delle esigenze più profonde e strutturali della nostra specie: la connessione. Vivere nella solitudine, o perseguire un’autonomia assoluta, significa dunque negare una componente fondamentale della nostra natura. Siamo così legati a un desiderio di connessione che una delle punizioni più estreme, praticate in ambito carcerario, è la cella d’isolamento.

Se ne deduce dunque che la solitudine e l’indipendenza, per quanto ardentemente desiderati, ci impediscono di vivere tutte quelle esperienze, interazioni ed emozioni che ci portano un senso di unione e appartenenza e ciò, alla lunga, è contrario al nostro benessere. 

Siamo fatti, prima di tutto, di interazioni, di scambi, di storie da raccontare, vivere e condividere. Siamo fatti di incontri, di scontri e di confronti. Dalla banale interazione con il venditore al supermercato alla complessità della relazione amorosa, veniamo stimolati e appagati da questi scambi.

Il ritorno alla nostra umanità

Con ciò non intendo dire che non si possa godere di momenti di serena solitudine, ma che scegliere la solitudine come unica rotta rischia di portarci a navigare in acque scure e pericolose e, eventualmente, al naufragio.

Desiderare l’indipendenza è comprensibile. Ma elevare tale desiderio a valore assoluto significa rischiare di recidere le radici stesse da cui nasce il nostro benessere più autentico, la connessione.

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La solitudine

La consulenza 09.12.2024, 13:00

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  • Carlotta Moccetti

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