Società

Kush: una crisi che brucia nel silenzio

Economica, devastante e in espansione: in Sierra Leone è già emergenza, ma la diffusione di questa droga sta contagiando l’intera regione occidentale. Il suo abuso racconta un disagio generazionale e riflette una crisi sociale, politica e culturale

  • Ieri, 11:00
  • Ieri, 11:17
Kush
  • Keystone
Di:  Emanuela Musto 

Nell’immaginario di molti, la parola kush evoca una varietà di cannabis potente, sì, ma relativamente inoffensiva. In Africa, invece, kush è diventato sinonimo di alienazione giovanile, povertà estrema e collasso delle istituzioni sanitarie. Apparsa per la prima volta in Sierra Leone, questa droga sintetica si è diffusa a macchia d’olio a ponente del continente africano diventando nel giro di pochi anni un fenomeno terrificante.

Nel 2022, le autorità della Sierra Leone lanciavano l’allarme su una nuova sostanza stupefacente che stava devastando le periferie della capitale. A distanza di tre anni, quella che era apparsa come una crisi locale si è trasformata in una piaga regionale che coinvolge ormai gran parte dell’Africa Occidentale, in particolare Liberia, Guinea, Gambia e Senegal. Sebbene non vi sia un bilancio ufficiale delle vittime, migliaia di giovani sono morti per il collasso degli organi dovuto all’abuso di questo stupefacente. Il kush è diventato uno specchio delle diseguaglianze strutturali, del trauma storico e della fragilità istituzionale che caratterizzano ampie zone dell’Africa postcoloniale.

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Alphaville 22.04.2024, 12:05

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  • Cristina Artoni

Nato come una versione potenziata della cannabis, ha l’aspetto della marijuana, ma è fino a 25 volte più forte del fentanyl. Il kush non ha una composizione sempre univoca, ogni dose può essere diversa, più potente, più pericolosa ed è impossibile prevederne gli effetti da individuo a individuo. Il pericolo di questo allucinogeno è duplice: rischio di autolesionismo e l’immediata dipendenza.

Secondo un rapporto pubblicato il 25 febbraio dall’Iniziativa globale contro la criminalità organizzata transnazionale, test chimici hanno rilevato che quasi il 50% dei campioni contiene nitazene (un oppioide sintetico altamente assuefacente), l’altra metà contiene Mdmb-4en-pinaca, un cannabinoide sintetico ben nove volte più potente del thc. Vengono spesso mescolati con tramadol (un analgesico oppiaceo), acetone, foglie di altea che sono leggermente psicoattive e formalina (prodotto utilizzato spesso per l’imbalsamazione). Alcune di queste sostanze vengono importate dalla Cina, altre provengono dall’Europa (Paesi Bassi e Regno Unito) attraverso rotte marittime, aeree e servizi postali.

Se in passato il mercato del kush era fortemente controllato da bande criminali, ora sembra essersi frammentato sempre di più in singoli spacciatori che avviano attività proprie. La droga costa in genere 5 leones (0.22 CHF) a canna, anche se molti consumatori spendono circa 9 franchi al giorno. Una piccola fortuna per un Paese con un PIL pro capite che non supera 904 franchi svizzeri l’anno. Per chi ne fa uso si pone costantemente il problema di finanziare la dose successiva, spesso ottenuta attraverso prostituzione o attività criminali.

L’impatto va ben oltre gli effetti psicoattivi: intere comunità stanno affrontando un’emergenza sociale e culturale. In Sierra Leone, si parla ormai di una “generazione kush”. Le immagini che arrivano da Freetown o Monrovia sono drammatiche: corpi distesi per strada, ragazzi in preda a deliri, interi quartieri dove questa sostanza è ormai parte della quotidianità. In molti casi, le famiglie scelgono di rinchiudere i propri figli in casa per proteggerli da se stessi. Alcuni tentano cure tradizionali, altri si affidano a comunità religiose.

Recentemente il presidente Julius Maada Bio ha definito la sostanza «una trappola mortale» che sta creando una crisi esistenziale nel paese. Sempre più allarmanti sono i dati riguardanti l’impatto sulla salute mentale: il numero di ricoveri nel Sierra Leone Psychiatric Hospital (l’unico in tutto il paese) per dipendenza da questa sostanza è cresciuto del 4’000% in tre anni, raggiungendo quota 1’875. Si tratta per lo più di uomini tra i 18 e i 25 anni che rappresentano il 63% del totale dei ricoveri. 

Non solo adolescenti e giovani uomini. Secondo un rapporto redatto dall’UNICEF l’anno scorso questo tipo di droga è causa di significativa preoccupazione nelle scuole. « Nella mia comunità, i ragazzi fumano kush per sfuggire ai loro problemi» ha affermato un partecipante al sondaggio realizzato, un altro ha aggiunto «I ragazzi che fumano kush sono un grosso problema qui, alcuni si arrendono e sviluppano disturbi mentali». 

Il kush offre un’illusione di fuga da una realtà insostenibile. Le strutture sanitarie sono impotenti: mancano centri di disintossicazione, personale specializzato, fondi per la prevenzione. Nel 2024, l’ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) ha emesso una nota in cui riconosce la diffusione del kush come una minaccia transnazionale. Eppure la risposta istituzionale è stata finora largamente repressiva. Le forze di sicurezza operano raid nei quartieri popolari, ma senza interventi strutturali su educazione, prevenzione, occupazione e salute mentale.

Kush in Sierra Leone

Dopo il conflitto armato nella regione del Fiume Mano degli anni ‘90 e inizi 2000, che ha causato oltre 200.000 morti e devastazioni diffuse, queste nazioni sono ancora alle prese con gravi crisi umanitarie che hanno profondamente influenzato le loro strutture sociali ed economiche. Segnati da guerre civili, instabilità politica e povertà cronica, la maggior parte dei giovani vive senza reali prospettive. L’istruzione è spesso carente, il sistema sanitario è fragile e il trauma intergenerazionale delle guerre recenti è ancora palpabile.

Alfred Mansaray, vicedirettore dell’Agenzia Nazionale per l’Applicazione delle Leggi sulla Droga della Sierra Leone, afferma che la disoccupazione giovanile, soprattutto nelle aree urbane, crea un terreno fertile per la diffusione di questo stupefacente. «Il Kush diventa un meccanismo di difesa facilmente accessibile per le ansie e le frustrazioni derivanti dalla povertà, dalla mancanza di opportunità e dalle limitate prospettive di vita», afferma. In questo vuoto esistenziale, il kush si offre come via di fuga. Non è solo una droga: è il sintomo di una società in crisi, di uno stato che non riesce a rispondere ai bisogni fondamentali dei suoi cittadini.

Negli ultimi mesi, le autorità di Liberia, Guinea e Gambia hanno iniziato a lanciare segnali d’allarme: il kush è arrivato anche da loro, portando con sé gli stessi effetti distruttivi. In mancanza di un coordinamento regionale, la droga si muove più velocemente delle politiche pubbliche. Gli spacciatori si adattano, cambiano formule, ampliano le reti. Il mercato è fluido e decentralizzato, difficile da arginare con le misure repressive tradizionali. Il suo successo devastante non può essere separato dal contesto in cui si è sviluppato ed è una minaccia per la pace e lo sviluppo di questi paesi.

Esperti e attivisti chiedono un approccio multilivello: campagne di sensibilizzazione nelle scuole e nei media, programmi di reinserimento sociale, creazione di centri di recupero, ma soprattutto investimenti strutturali in educazione e lavoro. È necessario affrontare le radici della crisi: la disperazione sociale, l’assenza di prospettive, la marginalizzazione giovanile.

L’Unione Africana ha avviato alcune iniziative per affrontare la questione delle droghe sintetiche, ma la risposta è ancora esigua rispetto a un fenomeno tanto esteso. Organizzazioni internazionali, ONG locali e comunità religiose stanno colmando alcuni vuoti, ma serve una volontà politica più determinata. Il kush si traduce nel grido silenzioso di un’intera generazione abbandonata. Raccontare questa crisi non significa solo denunciare una nuova emergenza sanitaria, ma interrogarsi sul futuro dell’Africa Occidentale e sulla responsabilità collettiva di costruire alternative reali, concrete e sostenibili.

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