Società

L’insostenibilità dei data center

Consumo di energia e di acqua: le fabbriche di dati hanno un risvolto fortemente impattante sull’ambiente

  • 21 aprile, 08:24
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  • Keystone
Di: Fabio Meliciani/Red. 

Ogni volta che inviamo un messaggio su WhatsApp, salviamo una foto nel cloud, chiediamo qualcosa a un algoritmo di intelligenza artificiale o guardiamo un film in streaming, mettiamo in moto una rete invisibile ma potentissima: quella dei data center. Veri e propri cuori pulsanti della nostra società iperconnessa, queste infrastrutture sono i luoghi fisici in cui vivono i nostri dati digitali.

Un data center può essere visto come una fabbrica di dati perché produce valore a partire dalla gestione e dall’elaborazione di questi dati. Ha un’infrastruttura fisica e organizzativa simile a una fabbrica con macchine (i server che richiedono energia), logistica, manutenzione, sicurezza e personale tecnico per funzionare proprio come un impianto produttivo. Una fabbrica che crea servizi e prodotti digitali da cui altre aziende e utenti traggono a loro volta profitto e utilità.

C’è un equivoco di fondo attorno al digitale: a noi sembra leggero ed evanescente. L’idea stessa di cloud computing è eterea. Cloud vuol dire nuvola. Cosa c’è di più leggero? In realtà il mondo del digitale poggia su infrastrutture hardware pesanti ed energivore, affamate. Stanze con grandi armadi metallici detti rack, pieni di cavi e lucine pulsanti, protetti dentro bunker a prova di atomica con livelli di sicurezza altissimi.

Gran parte di quello che facciamo con i nostri computer e smartphone e con tanti altri apparecchi connessi al web finiscono qui. Quando guardiamo un film su qualche piattaforma on demand, quando inviamo una mail o un messaggio WhatsApp, quando archiviamo le nostre foto, quando usiamo una app o qualche software di intelligenza artificiale per elaborare immagini e video, quando creiamo dei post sulle bacheche dei nostri social: tutto finisce o inizia da un data center. Per non parlare poi di servizi bancari, dati sanitari. Insomma, il nostro alter ego digitale è distribuito in queste fabbriche di dati.

Ogni nostra azione digitale richiede che un data center spenda tempo di calcolo, che consumi spazio ed energia. Come ci spiega Matteo Caserini, matematico, professore SUPSI, che dopo anni spesi in una delle maggiori aziende tecnologiche al mondo, è tornato in Ticino come corresponsabile del Bachelor in data Science e intelligenza artificiale della SUPSI.

«In un data center abbiamo una grandissima quantità di dischi fissi che si occupano dello storage. Abbiamo componenti di rete ad altissima velocità, abbiamo processori che si occupano di fornire la capacità di calcolo, abbiamo sistemi di raffreddamento per permettere a questi sistemi di lavorare alla massima efficienza. In termini di dimensioni, c’è una grandissima variabilità perché possiamo avere dei data center più locali in cui si tratta magari di decine o centinaia di server mentre abbiamo degli esempi più estremi, come per esempio l’ultimo super cluster costruito da Elon Musk, dove si parla di centinaia di migliaia di schede grafiche unite in un cluster con un consumo che si avvicina ai 100 megawatt. 100 megawatt per un solo data center è una capacità energetica equivalente a quella necessaria per alimentare il fabbisogno di una piccola città. 

Una cosa di cui non ci rendiamo sempre pienamente conto è che ogni qual volta chiediamo una nostra applicazione di compiere una determinata azione, per esempio modificare una faccia, creare delle smorfie, invecchiare artificialmente o quant’altro, per quanto possa essere un’operazione divertente, si tratta di un’operazione che in realtà richiede delle capacità computazionali da parte del data center». (Matteo Caserini, matematico, professore SUPSI)

L’impatto che hanno le nostre azioni, le nostre piccole azioni digitali ce lo spiega Marco Bettiol, esperto di tecnologia e sostenibilità, professore presso l’Università di Padova e autore di un volume intitolato proprio La sostenibilità ambientale del digitale. Il ruolo dei data center uscito nel 2024.

«Giusto per avere un’idea, ogni interrogazione online inquina 4,32 grammi di CO2 (quindi produce 4,32 grammi di CO2). Ogni risposta che riceviamo di circa 100 parole consuma circa 500 millilitri d’acqua, quindi mezzo litro d’acqua. Non stiamo parlando di cose piccole, ma che sommate creano alla fine un grande consumo. Diciamo che mettere dei limiti all’uso è sempre un po’ problematico. Mal si concilia anche con uno stato democratico, ma è interessante invece lavorare sul livello di consapevolezza, quindi rendere trasparente e visibile al consumatore, all’utilizzatore quanto sta inquinando facendo quel tipo di ricerca online». (Marco Bettiol, esperto di tecnologia e sostenibilità, professore all’Università di Padova)

Un’interrogazione a chat GPT equivale quindi più o meno al consumo di mezzo litro di acqua. E l’acqua è il secondo aspetto problematico di questi enormi data center. Queste fabbriche per raffreddare i propri server usano infatti grandissime quantità d’acqua.

«Il tema dell’acqua è un tema importante perché c’è un elevato consumo di acqua che è legato al raffreddamento dell’infrastruttura. Il data center hanno oltre al consumo diretto di CO2, il problema di dissipare il calore prodotto dalla parte computazionale. E l’acqua diventa un fattore importante per assorbire questo calore: si parla di consumi significativi dell’acqua tanto che in alcuni casi, in alcune aree del mondo, si è creata una tensione tra popolazione locale e Big Tech. In particolare il caso dell’Uruguay, dove la popolazione ha protestato e ha impedito di fatto l’installazione di data center, temendo che parte dell’acqua necessaria ai data center avrebbe impedito di mantenere le colture». (Marco Bettiol, esperto di tecnologia e sostenibilità, professore all’Università di Padova)

                

26:18

Fabbriche di dati

Il giardino di Albert 12.04.2025, 18:00

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