Il mondo dello sport è di nuovo al centro di un acceso dibattito: l’introduzione di test di genere obbligatori per le atlete che vogliono competere nelle categorie femminili. Dopo il pugilato, anche atletica, sci e snowboard valutano questi esami, con possibili ripercussioni già ai Giochi Olimpici di Milano-Cortina 2026.
La validità scientifica
Il test proposto si basa sull’individuazione del gene SRY, presente sul cromosoma Y. Il genetista Giuseppe Novelli, intervistato in Alphaville da Barbara Camplani e Matteo Ongaro, spiega che si tratta di un esame semplice, ma «piuttosto banale», perché la presenza del gene non garantisce lo sviluppo di caratteristiche maschili. La biologia è molto più complessa: una persona su 5000 nasce con differenze nello sviluppo sessuale e ogni individuo è geneticamente unico. Ridurre la questione a un singolo gene o ormone rischia di essere fuorviante.
Test di genere per sportive d’élite
Alphaville 18.11.2025, 12:05
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Questioni etiche
Oltre ai limiti scientifici, i test sollevano problemi di diritti umani. La sociologa Alessia Tuselli sottolinea: «Evidentemente questi tipi di test implicano una violenza generale nel tracciare dei confini su cosa è donna nello sport». Si tratta infatti di pratiche invasive che mettono in discussione l’identità delle atlete, costringendole a “dimostrare” di essere donne per gareggiare. Il consenso è problematico: senza test, le sportive rischiano l’esclusione dalle competizioni.
Uno sguardo storico
I test di genere non sono una novità. Già nel 1936 la velocista Helen Stephens fu sottoposta a una “verifica del sesso”. Fino al 1999, controlli simili furono applicati soprattutto nell’atletica femminile, passando da esami fisici a test cromosomici e sul testosterone. Oggi, però, la scienza ha superato il concetto di ormoni come unico parametro: nuove proteine, le eserchine, mostrano la variabilità individuale. Secondo Novelli, servono approcci più moderni e parametri fisiologici diversi.
Regolamentazioni restrittive
Nonostante i progressi scientifici, il dibattito sembra muoversi verso regole più rigide. Tuselli segnala che il CIO potrebbe adottare regolamenti simili a quelli statunitensi, escludendo persone trans dalle categorie femminili. Una tendenza che contrasta con gli sforzi di inclusività, come la promessa di Milano-Cortina 2026 di raggiungere il 47% di partecipazione femminile. «L’equità non si misura soltanto in presenze», ricorda la sociologa.
Verso una maggiore equità
Per Tuselli, un passo avanti è lavorare sulla narrazione mediatica, evitando titoli sessisti e valorizzando le atlete come professioniste. Dal lato scientifico, Novelli propone di superare la divisione binaria uomo-donna e introdurre nuove categorie basate su parametri fisiologici come massa muscolare o ematocrito. La biologia è complessa e va affrontata con strumenti moderni, attraverso comitati internazionali di esperti.
Conclusioni
La questione dei test di genere nello sport non può essere risolta con soluzioni semplicistiche. È necessario riconoscere che nello sport esistono vantaggi fisici e socio-economici di partenza, che rendono illusoria l’idea di perfetta equità. Come ricorda Tuselli, «vivere e nascere negli Stati Uniti dà un vantaggio rispetto al farlo in Sudan».
La vera sfida sarà trovare un equilibrio tra equità competitiva e rispetto dei diritti e dell’identità di tutti gli atleti. Solo superando visioni binarie ormai superate dalla scienza e dalla società si potrà costruire uno sport realmente inclusivo, capace di valorizzare le differenze invece di stigmatizzarle.


