“Amo la radio perché arriva dalla gente, entra nelle case e ci parla direttamente (…) Con la radio si può scrivere leggere o cucinare, non c'è da stare immobili seduti lì a guardare, e forse è proprio quello che me la fa preferire, è che con la radio non si smette di pensare”
Se esistesse un premio alla capacità di sintesi, questi versi della canzone “La radio” lo garantirebbero certamente al suo autore, Eugenio Finardi. In queste poche parole, infatti, è racchiusa l’essenza stessa della radio sino dalla sua invenzione o meglio dal suo utilizzo come strumento di comunicazione di massa.
L’“elogio” di Finardi del mezzo radiofonico è del 1976, è stato scritto cioè esattamente settant’anni dopo che uno studioso di elettrologia, il canadese Reginald Fessenden, “smanettando” su uno dei primi apparecchi destinati alla trasmissione di segnali Morse e collegando a esso un microfono, era riuscito a trasmettere da Boston e in un raggio di circa venticinque chilometri, la lettura di un passo biblico e la musica del suo grammofono.
Era la prima volta che ciò succedeva: fino a quel momento, infatti, era stato considerato quasi miracoloso già il fatto che un ventisettenne autodidatta italiano, Guglielmo Marconi, nel 1901 fosse riuscito a trasmettere segnali elettrici udibili a distanza.
La radio di Guglielmo Marconi
Oggi, la storia 12.12.2012, 01:00
L’esperimento di Fessenden fu quindi un fatto fenomenale per l’epoca, in realtà però la cosa colpì solo la comunità di chi era appassionato alle “cose elettriche”, da tutti gli altri la notizia venne considerata una bizzarria che non avrebbe avuto seguito (le previsioni da avventori del Bar Sport sono sempre esistite…).
Da quando era stato inaugurato il primo servizio pubblico di radiotelegrafia, invece, di qua e di là dell’oceano, era cresciuto un numero considerevole di “radioamatori” che, con apparecchi molto spesso “fatti in casa”, trascorrevano ore alla ricerca dei segnali Morse diffusi nell’etere. Saranno loro che nel 1919, cercando i bip bip dei telegrafi senza fili, si imbatteranno per caso nelle sperimentazioni di un ingegnere di Pittsburgh in Pennsylvania che dal suo garage aveva cominciato a trasmettere con regolarità programmi musicali e notizie.
Frank Conrad, questo il nome dell’ingegnere, a tutti gli effetti fu il primo disk jockey della storia: la sua idea ebbe tanto successo che riuscì a farsi finanziare la nascita della prima emittente radiofonica commerciale, la KDKA.
Così, dai ruggenti Anni ’20 in poi, uno degli oggetti di desiderio divenne la radio: tutti la volevano e tutti, appena potevano, la compravano. I conti bancari di chi aveva deciso di produrre radio si moltiplicarono anno dopo anno: negli Stati Uniti, già nel 1924 erano più di un milione e mezzo le famiglie che la possedevano e oltre millecento erano le emittenti, tutte finanziate dalla pubblicità, la quale aveva scoperto nel nuovo mezzo lo strumento che meglio di un rappresentante promuoveva i nuovi prodotti casa per casa (e, per chi se le poteva permettere, anche nelle automobili grazie alle autoradio che entrarono in produzione nel 1927).
Pian piano, la stessa cosa avvenne in Europa: nel ‘22 iniziarono le trasmissioni della BBC londinese e quelle da Losanna di La première, nel ’24 quelle dell’Unione Radiofonica Italiana, e via così, con uno “spuntar d’antenne” in ogni dove per portare voci e suoni alle orecchie di tutto il continente.
La radio è un altro di quei simboli che segnano indelebilmente il Novecento, quindi: potevano mancare i futuristi a “dire la loro” sulla nuova protagonista del secolo? Certamente no e infatti, dopo averla rinominata al femminile “Radia” per contrapporre provocatoriamente il modello futurista di comunicazione “puro organismo di sensazioni radiofoniche”, a essa dedicheranno pure un manifesto con le regole per l’”arte nuova che comincia dove cessano il teatro il cinematografo e la narrazione”.
Al di là dell’immancabile enfasi futurista, la radio affascina tutti: d’altra parte, come resistere alla sua magia e soprattutto alla magia del suo quadrante luminoso dove appaiono i nomi delle stazioni estere come London, Frankfurt, Riga e decine di altre che, con pazienza e tra mille fischi e fruscii, potevano diventare altrettante voci straniere?
Il suo potere di suggestione è enorme: lo toccò con mano Orson Welles quando, nel 1938, decise di sceneggiare per la radio “La guerra dei mondi”, un romanzo di fantascienza che annunciava l’invasione di marziani. La narrazione radiofonica, concepita come notiziari che si inserivano nella programmazione abituale, generò il caos perché molti ascoltatori non compresero la finzione: “Sei minuti dopo che eravamo andati in onda – disse lo stesso Welles - le case si svuotavano e le chiese si riempivano; da Nashville a Minneapolis la gente alzava invocazioni e si lacerava gli abiti per strada.” L’invasione extraterrestre? Guai a giocare con le fake news…
La radio sarà invece protagonista nella vera guerra dei mondi ossia durante il secondo conflitto mondiale: indispensabile come mezzo di comunicazione tra i reparti al fronte, come strumento di propaganda e come fonte di informazione per chi, giorno dopo giorno, attende l’annuncio della fine dei combattimenti.
Saranno gli anni Cinquanta però a decretare la definitiva affermazione della radio: nascono le radioline a transistor grazie alle quali informazione e musica possono stare in una tasca ed essere portate dove si vuole.
C’è chi afferma che web e smartphone finiranno per rendere la radio obsoleta: non lo crediamo, non solo perché oltre 50.000 emittenti oggi nel mondo rappresentano un bel “fronte resistenziale”, ma anche perché, come disse un conduttore radiofonico: “Nonostante tutti i miglioramenti tecnici, [la radio] è ancora un uomo o una donna e un microfono, la riproduzione di musica, la condivisione di storie, il comunicare con il pubblico”, ossia, è la semplicità indispensabile.