Società

Le due sorelle

Jean Genet e il salto dalla prosa alla scena

  • 5 maggio, 13:53
Le sorelle Papin a processo
Di: Daniele Bernardi

Nel febbraio del 1933 la città di Le Mans fu sconvolta da un crimine orrendo, la cui eco crebbe presto in tutta la Francia.

Christine e Léa Papin, due sorelle di umili origini a servizio presso un’abitazione borghese, avevano brutalmente massacrato la padrona di casa e sua figlia. La strage era cominciata in modo strano. Una sera, mentre la famiglia era fuori, un guasto all’impianto aveva impedito a Christine di svolgere i propri lavori di stiratura. Una volta rientrate, la donna aveva informato le proprietarie e la situazione era degenerata: coinvolgendo la sorella, si era scagliata sulla madre e la ragazza cavando loro gli occhi e facendole letteralmente a pezzi. Alla fine, la stanza era un lago di sangue ma consumato l’atto le Papin si erano coricate esclamando: «Questa sì che è pulizia!».

Le sorelle Papin

Il caso suscitò l’interesse di numerosi intellettuali, confermando quell’attrazione per il crimine che, da Sade a Duvert, da sempre contraddistingue una certa cultura francese.

Al di là della folle ferocia del gesto, ciò che colpiva era quanto le giovani fossero considerate delle «dipendenti modello (…) perfettamente integrate nell’ideale di servitù a cui avevano votato il loro destino». Scrive Élisabeth Roudinesco nella sua biografia di Jacques Lacan, che, come altri, si occupò della cosa in prossimità dei fatti: «Per la parte civile e la pubblica accusa (…) erano mostri sanguinari (…). Per la difesa (…) capri espiatori della ferocia borghese. Péret ed Éluard inneggiarono le eroine invocando i Chants de Maldoror, mentre Sartre coglieva l’occasione per denunciare in primo luogo l’ipocrisia della società benpensante».

Jean Genet

Anche per il giovane Jean Genet (Parigi, 1910-1986) – che allora, pur di abbandonare la Colonia penitenziaria di Mettray, aveva scelto di arruolarsi come volontario ed era di ritorno dal Marocco – il delitto non passò inosservato.

Infatti, benché inizialmente lo negasse, sarà a partire da lì che oltre dieci anni dopo scriverà il copione de Le serve, diventato poi un classico del novecento, presente in moltissimi cartelloni dei teatri di tutto il mondo (lo scorso aprile ne è stata fatta una versione al Teatro Sociale di Bellinzona, per la regia di Veronica Cruciani). Grazie a questo testo travagliato, Genet sancirà il pressoché definitivo passaggio dalla narrativa alla drammaturgia, dalla prosa barocca alla scena.

Con le sorelle Papin Genet condivideva un passato da emarginato: loro erano cresciute tra orfanotrofi e istituti, lui in una famiglia affidataria perché abbandonato dalla madre e di padre ignoto. All’epoca dei fatti non aveva ancora buttato giù una riga di ciò che l’avrebbe reso celebre. Sarà fra 1943 e il 1944 che Jean Cocteau e il sopraccitato Sartre ne scopriranno il talento, l’inusuale capacità di forgiare una lingua elaboratissima, come composta di broccati e fregi, attraverso la quale le gesta dei suoi eroi – assassini, ruffiani, prostituti e banditi – divengono, sulla pagina, luogo mitico e sospeso, privo di sviluppi e colmo d’estasi.

Ma virando verso il teatro la scrittura genetiana fece un passo avanti, oltrepassando la cortina di pizzi e rilievi che la caratterizzava. Infatti Notre-Dame-des-Fleurs (1942), il Miracolo della rosa (1946) o Querelle di Brest (1947) erano scritti in cui autobiografismo e finzione si coagulavano eternamente attorno al tema dell’amore omosessuale. Scartato il caso di Sorveglianza speciale (1949)primissima pièce, che, tra l’altro, strutturalmente condivide qualcosa con Le serve – la produzione drammatica di Genet si aprì invece ad altro.

jean genet pantere nere

«La mia posizione (...) da allora cambiò», racconta in un’intervista del 1969. «Quando scrivevo in prigione, lo facevo per dei lettori solitari; quando mi sono dedicato al teatro, ho dovuto scrivere per degli spettatori solidali. Bisognava cambiare tecnica mentale». Sul palco, quindi, «occorreva tradurre il contenuto personale (…) dei romanzi nei termini pubblici», per usare un’espressione di Edmund White in Ladro di stile. Le molte vite di Jean Genet (Il Saggiatore, 1998). In questo modo le ossessioni sottese al discorso sul sesso avrebbero trovato nuova linfa in un’arena più ampia, dove si sarebbe data voce alla relazione servo-padrone, alla persecuzione degli emarginati (I negri,1958) e alla critica al colonialismo (I paraventi, 1961). Ma tornando a Le serve e alle sorelle Papin, cosa conservò Genet di quel fatto di cronaca? Nel concreto pochissimo: il legame di dipendenza fra le protagoniste e la valenza simbolica del passaggio all’atto. Ma pure se escluse i molti dettagli cruenti della vicenda – l’accecamento e le mutilazioni – egli non tradì l’essenza psichica sui cui si reggeva l’impalcatura del rapporto fra Christine e Léa. Infatti di sostanziale ispirazione per Genet furono certi giochi di ruolo infantili, nei quali Claire e Solange, anti-eroine che nella pièce tramano e sognano la morte della padrona, appaiono come invischiate in virtù del loro confondere realtà e immaginazione.

Louis Jouvet

Il dramma andò in scena nel 1946 al Théâtre de l’Athénée di Parigi per la regia del famosissimo Louis Jouvet (Crozon, 1887 – Parigi, 1951), il quale, convinto di trarre profitto dallo scandaloso nome di Genet, aveva in qualche modo fatto da committente. Questi però, nell’allestirlo, non si era accontentato della prima stesura, inizialmente composta da quattro atti e ambientata di fronte alla stanza della vittima, e la fece riscrivere. Con l’aiuto di Cocteau, Genet si mise quindi all’opera seguendo le sue indicazioni, che prevedevano lo svolgimento all’interno della camera e la riformulazione in un solo atto.

Inoltre, contrariamente a quanto, in generale, avrebbe poi indicato Genet per i ruoli femminili – «se dovessi far rappresentare un lavoro (…) in cui ci fossero parti di donna, esigerei che queste (…) fossero interpretate da giovinetti» – Le serve non ebbe un cast maschile: Jouvet affidò i ruoli principali a Monique Mélinand e Yvette Étiévent, entrambe sue amanti, mentre Yolande Laffon vestì i panni di Madame. Non da ultimo, le repliche furono programmate insieme a un testo di Giraudoux, di modo che lo spettacolo ne condivise la traboccante scenografia.

Genet era offeso: col suo approccio commerciale Jouvet cercava di «trasformare la sua opera in un divertissement per (…) facoltosi». Al suo scontento si aggiunse presto quello della critica, che in generale fu molto ostile, e del pubblico parigino: le novantadue rappresentazioni vennero regolarmente interrotte da fischi e schiamazzi. Sartre, da strenuo difensore dell’amico, affermò che la responsabilità era unicamente di Jouvet, reo di aver sfigurato un copione straordinario.

Jean Genet: moralista e libertario

Laser 17.12.2010, 01:00

Oltremodo tediato, il drammaturgo se la legò al dito al punto da non volerne più saperne del direttore dell’ Athénée. E quando, nel ‘54, pubblicò con Jean-Jacques Pauvert due versioni del suo capolavoro (e fra queste mancava quella iniziale), in una nota disse: «Ordinata da un attore celebre ai suoi tempi, la mia pièce fu dunque scritta per vanità ma nella noia».

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