Ogni donna sa quanto sia fastidioso mettersi in coda per il bagno in luoghi pubblici – concerti, grandi magazzini, aeroporti. La fila è interminabile. Guardiamo il cellulare, lanciamo occhiate per controllare che nessuno ci superi, e guardiamo con invidia la porta dei bagni maschili, a cui si presentano sporadici uomini.
Fino a qualche anno fa accettavo questo fatto come parte del destino di essere socializzata donna. «Almeno i nostri sono più puliti», pensavo dubbiosa. Poi ho iniziato a vivere con insofferenza sempre maggiore questa costrizione. Perché perdere decine di minuti in piedi mentre il bagno a fianco è vuoto? Ho compiuto il mio primo atto di ribellione un giorno in cui non riuscivo davvero a trattenermi. Mi sono fatta coraggio, e ho varcato la soglia del bagno degli uomini, assicurandomi che fosse vuoto. Mi sono accorta che la sua superficie era uguale a quella del bagno delle donne. Solo che aveva un arredamento diverso: una cabina in meno, ma alcuni orinatoi alle pareti. Ovvio che si forma più facilmente coda, se ci sono meno posti. E poi le donne «hanno il ciclo mestruale, durante la gravidanza la capacità della vescica di trattenere a lungo la pipì è ridotta e soffrono otto volte più frequentemente di un uomo di infezioni del tratto urogenitale» ricordano Emanuela Griglié e Guido Romeo (Per soli uomini. Il maschilismo dei dati, dalla ricerca scientifica al design, Codice Edizioni, 2021). Inoltre, quasi sempre i fasciatoi si trovano nei bagni femminili. Una donna impiega circa 2,3 volte il tempo di un uomo, in bagno (Taunya Lovell Banks, Toilets as a Feminist Issue: A True Story, in «Berkeley Women’s Law Journal», 1991). «È cattivo design che standardizza bisogni [...] diversi», notano Griglié e Romeo.
Ho iniziato a osservare come sono stati progettati i bagni pubblici in cui vado. Non è solamente una mia fissazione: da decenni si studia questo nonluogo dal punto di vista architettonico, sociologico, antropologico. I bagni pubblici sono spazi estremamente politici. Dalla loro conformazione si comprende molto della cultura in cui sono stati pensati e realizzati, come vengono vissuti i ruoli di genere, la genitorialità, la disabilità, i corpi – tutti i corpi, grassi, magri, sani, malati, cis, trans, disabili e non – e le loro funzioni più tabù: minzione, defecazione, mestruazioni, ma anche igiene e salute.
Da tempo si dibatte sulla possibilità di realizzare bagni “gender neutral”, ovvero misti, proprio come succede nelle abitazioni private. Nulla di particolarmente innovativo o provocatorio: chi era fan della serie Ally McBeal si ricorderà l’epica scena del balletto nel bagno, unisex senza grossi scandali, di un importante studio legale. Si trattava del 1998.
Eppure oggi la questione è scottante: con il pretesto di proteggere la privacy e l’incolumità delle donne, nonché difenderle dalla “naturale propensione a sporcare” degli uomini, le frange conservatrici si scagliano contro i bagni misti.
I bagni pubblici sono da sempre spazi in cui si esercita un rigido controllo sociale: «Le toilet pubbliche sono luoghi dove pubblico e privato si intersecano e si sovrappongono, luoghi immaginati per corpi segregati dal punto di vista biologico in maschi e femmine, e adibiti, nel rispetto di precise norme di privacy, all’esercizio di quelle funzioni escrementizie intorno alla cui regolazione ruota una parte importante dei processi di disciplinamento e controllo sociale», constatano Brunella Casalini e Stefania Voli (“We just need to pee”. Corpi scomodi nei bagni pubblici, in «Ingenere», 2015).
Da frequentatrice di bagni delle donne, posso assicurare che la propensione allo sporco e all’incuria del bene comune non passa attraverso il cromosoma Y, ma è piuttosto diffusa anche nella popolazione femminile. E più che alla segregazione si dovrebbe puntare a una trasversale educazione al rispetto di cose e persone, a prescindere dal loro genere.
Se di sicurezza vogliamo parlare, parliamo dell’incolumità compromessa di persone trans e non binarie (cioè che non si riconoscono solamente in uno dei due generi maschile o femminile) quando devono entrare in bagni divisi per genere. Ogni volta che devono scegliere quale porta attraversare, sono costrette a vivere la violenza di entrare in un bagno che non è pensato per loro, e si espongono alle aggressioni di altre persone che frequentano quel bagno. Isa Borrelli, attivista e scrittore trans*, scrive in un post su Instagram: «Per me i bagni sono diventati un luogo sospetto. Generalmente uso quelli delle donne, ma negli ultimi tempi – nonostante le mie convinzioni – è proprio lì che subisco il maggior numero di micro-aggressioni. [...] L’ultima volta in auto-grill una donna ha iniziato a urlare che quello non era un bagno unisex e mi ha bussato al bagno più volte. Sono rimasto lì chiuso senza rispondere».
La suddivisione per genere, così socialmente importante per ogni persona, scompare quando parliamo di corpi disabili. Quando c’è (e ripeto: quando c’è), il “bagno disabili” è uno solo, contrassegnato con il simbolo della persona in carrozzina su sfondo blu acceso. Perché le persone disabili non hanno genere? Piuttosto perché per la nostra società abilista il genere delle persone con disabilità non ha importanza, e anzi: è quasi scabroso perfino parlarne, «come se la disabilità fosse un tratto talmente potente da obliterare genere, sesso e sessualità» (Casalini, Voli, “We just need to pee”). Quando si ha una disabilità, i discorsi su igiene e sicurezza e privacy scompaiono come per magia. Le persone disabili «sembrano appartenere ad una specie di “terzo sesso”»: le toilette a loro destinate, a uso singolo, «vengono spesso posizionate al di fuori del box maschile e di quello femminile» osserva Chiara Montalti (Il bagno come spazio politico. Corpi, disabilità e generi, in «Tropico del Cancro. Culture critiche del presente», 2021).
«La natura dei bagni rende evidente la fertilità di un approccio intersezionale. In che modo i corpi performano – e allo stesso tempo subiscono – tanto le proprie identità di genere quanto le proprie disabilità?» si chiede Montalti. «E se, insieme, costruissimo resistenza a partire da quel luogo di marginalità dove ci hanno costretto?» si chiede Borrelli. «Ogni bagno dovrebbe essere accessibile, ogni bagno dovrebbe essere degenerizzato».
Un altro tema scottante riguarda la genitorialità, che nei bagni pubblici si esprime con la presenza di fasciatoi. Sono quasi sempre posizionati nei bagni femminili, come se non esistessero padri che si occupano della prole. In molti casi, per ragioni di spazio, vengono relegati nei bagni per persone con disabilità – ma ovviamente non hanno un’altezza regolabile, così da poter essere effettivamente usati anche da loro. Perché, semplicemente, non è previsto che una persona disabile sia anche genitrice.
«Lo spazio non è neutro», citando l’omonimo saggio di Ilaria Crippi (Tamu, 2024). La mancanza di bagni pubblici accessibili e gratuiti, che promuovono il rispetto e la convivenza delle differenze, non legati a esercizi commerciali, progettati e realizzati per tutte le persone, è un problema per tutta la società. Non basta progettare uno spazio che possa ospitare qualsiasi corpo: dobbiamo creare un sistema che consenta a ogni persona di sentirsi al sicuro, vista e prevista.