«Niente è meglio che essere magri» affermava Kate Moss, icona della moda anni ‘90, anni intrinsecamente contraddistinti da una grassofobia onnipresente e nemmeno tanto velata. Per i millennial l’adolescenza è stata caratterizzata dall’era heroin-chic.
Nella società odierna essere una donna grassa può significare interrogarsi costantemente su dove finisca la scelta individuale e dove cominci la pressione sistemica. Essere una donna sovrappeso oggi significa anche sapere che il proprio corpo può essere politico, che non esiste da solo, ma dentro una rete di disagi e pregiudizi che cambiano volto a seconda del colore della pelle, del ceto, della disabilità, della salute mentale. La grassofobia, lungi dall’essere una questione meramente estetica, colpisce in modo diverso a seconda dell’orientamento sessuale, della razza, della classe sociale e della (dis)abilità. La tendenza è che i corpi grassi vengano esclusi, ridicolizzati o patologizzati, con conseguenze materiali che vanno dalla discriminazione medica alla marginalizzazione mediatica.
https://rsi.cue.rsi.ch/cultura/societa/Contro-la-grassofobia--1810274.html
Con l’ascesa della body positivity negli ultimi anni si è assistito a una rivoluzione. Il movimento aveva conquistato sempre più spazio nei media e nella cultura popolare. Non solo accettazione, ma amore. Non solo tolleranza, ma celebrazione. I corpi grassi non erano più nemici da combattere, ma esseri umani da rispettare. La narrativa aveva iniziato a cambiare, si pretendeva visibilità, dignità, inclusione nella moda e salute su misura. La body positivity non come slogan quindi, ma come luogo in cui si diceva: non devi cambiare per meritare rispetto, non devi dimagrire per essere ascoltata, non devi giustificare il tuo corpo a nessuno. Il movimento ha rappresentato un tentativo di ricostruzione simbolica e politica, volto non solo alla normalizzazione della diversità corporea, ma alla sua valorizzazione.
«When body positivity becomes mainstream, it stops being political and starts being palatable» («Quando la body positivity diventa popolare, smette di essere politica e diventa appetibile») ha osservato la scrittrice statunitense Sabrina Strings, autrice di Fearing the Black Body: The Racial Origins of Fat Phobia. Infatti, le critiche al movimento non sono mancate. Tacciato di normalizzare condizioni fisiche pericolose e di romanticizzare situazioni mediche problematiche sotto la bandiera dell’accettazione. Non solo, vi è stata anche la questione del marketing. Sì, perché qualsiasi cosa può essere “commercializzata”, anche il disagio con il proprio corpo. Molte aziende hanno infatti sfruttato il messaggio del movimento per fini economici. Insomma, invece di promuovere l’inclusività autentica si è assistito a una rappresentazione selettiva di “diversità estetica”. Proprio per rispondere a queste criticità, è nato il movimento della body neutrality, che propone un approccio più realistico: non si tratta di amare sempre il proprio corpo, ma di accettarlo come uno strumento che ci permette di vivere, spostando l’attenzione dal valore estetico alla funzionalità.
Una vittoria per pochi, Ozempic
Millevoci 24.03.2023, 10:05
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«Non è il mio corpo a essere sbagliato, è lo sguardo che mi opprime.» scriveva la teorica femminista Carla Akotirene, sottolineando come il corpo delle donne — e in particolare quello delle donne nere, indigenti e queer — sia costantemente sottoposto a disciplinamento. E infatti è arrivato l’Ozempic. Con la sua ascesa come soluzione “efficace” alla questione del peso, la narrazione si è rapidamente spostata: da una critica al sistema a una reinternalizzazione del problema. Se all’inizio era solo un farmaco per il diabete, ora è diventato la risposta al peso, alla fame, al corpo che non si piega alle diete. Il farmaco sembra essere ovunque: nelle riviste, sui social, nei corpi improvvisamente asciutti di persone che prima parlavano di accettazione e ora scompaiono dietro a silhouette “curate”. Oggi l’ideale estetico dominante sembra tornare ad assomigliare pericolosamente ai canoni di magrezza del passato. Il discorso sul corpo pare ricadere in vecchie “trappole”. Celebrità, influencer e persino medici sui social promuovono questi trattamenti come “scorciatoie” verso la magrezza, spesso ignorando gli effetti collaterali, i costi esorbitanti e il messaggio sociale sottinteso: il corpo grasso è ancora un problema da risolvere.
Molte attiviste si sono sentite tradite. Non da chi assumeva Ozempic – perché la scelta è estremamente complessa e personale – ma da un sistema che ha divorato una rivoluzione e l’ha restituita come merce. La body positivity, quella vera, che parlava anche di razza, disabilità, povertà, salute mentale, è stata ridotta a una strategia di marketing passeggera. Si è diffusa la sensazione che il corpo grasso torni quindi a essere visto come qualcosa da “correggere”, non più come forma legittima di esistenza, ma come condizione transitoria da superare grazie all’accesso farmacologico. In questo nuovo scenario dominato dalla farmacologia del dimagrimento sembra che ancora una volta, il corpo grasso venga escluso, patologizzato, stigmatizzato. Non si tratta di criticare i farmaci in sé, ma di interrogarsi sul contesto culturale ed economico che li rende desiderabili. Il messaggio sembra essere che la promessa dell’Ozempic non sia solo quella di un corpo magro, ma di un corpo “accettabile”, “disciplinato”, “meritevole di successo”.
Per chi ci ha creduto, il declino della body positivity non è solo una questione estetica, ma il sintomo di un’epoca che fatica ad accettare la diversità reale dei corpi e delle esperienze. L’adozione di farmaci come Ozempic come strumenti di normazione sociale potrebbe rappresentare un ritorno a forme sottili ma pericolose di violenza estetica e biopolitica. In risposta forse servirebbe una nuova forma di body politics — radicale, collettiva, anticapitalista e intersezionale. Una resistenza che non dica solo “amo il mio corpo”, ma che esiga: “il mio corpo non deve cambiare per essere rispettato.”