Ogni mattina, milioni di persone sfogliano le notizie sullo schermo del telefono, tra un sorso di caffè e il tragitto a lavoro. Spesso basta un’immagine per catturare l’attenzione: un palazzo sventrato, un bambino coperto di polvere che piange davanti a una telecamera. In poche ore quel volto diventa virale, rimbalza su social e telegiornali.
Secondo i dati del Peace Research Institute Oslo, sono 59 i conflitti armati attualmente in corso nel mondo. Ma la nostra coscienza collettiva sembra concentrarsi solo su alcuni di questi. Mentre Gaza diventa epicentro simbolico di un dissenso planetario, altre guerre restano relegate ai margini della percezione pubblica. Viene da chiedersi cosa vi sia dietro a questa generale indignazione selettiva. Piangiamo per le morti di tutti quei poveri bambini in Palestina, eppure difficilmente ci fermiamo a pensare che nello stesso istante in Congo altrettanti bimbi rischiano la vita nelle miniere di cobalto, in Darfur le bambine subiscono violenze sessuali sistemiche, nello Yemen 2,5 milioni di minori soffrono di malnutrizione acuta. Lì, però, spesso le telecamere non arrivano. Lì, spesso il nostro sguardo non si ferma.
Perché le vite di alcuni ci scuotono e altre restano silenziosamente consumate nell’ombra?
Una prima spiegazione sta nella tecnologia. La routine che molti di noi hanno per informarsi comincia con uno scroll, una rassegna di notizie a portata di smartphone. In questo contesto iperconnesso, l’indignazione diventa quasi un riflesso condizionato. Un’immagine virale, un video di pochi secondi, un post amplificato: tanto basta ad accendere l’empatia globale. Ma la stessa coscienza che si accende, rapidamente si spegne. La ragione non è soltanto psicologica, ma anche tecnica. Va ricordato che i social media non sono spazi neutrali: gli algoritmi premiano i contenuti che suscitano emozioni forti – rabbia, paura, compassione. L’effetto è dunque cumulativo, ovvero ciò che genera attenzione diventa centrale, mentre ciò che non la genera resta invisibile. Così l’indignazione, più che un atto di coscienza, si trasforma in prodotto dell’engagement. Gaza, con la sua portata simbolica e le immagini immediatamente comprensibili, si presta perfettamente a questo meccanismo.
Il ruolo delle piattaforme digitali si intreccia con quello dei media tradizionali. Gaza è un luogo simbolico, stratificato di storia e di significati e la sua cronaca funziona in termini di “buoni contro cattivi”. La semplificazione narrativa è un criterio implicito del racconto mediatico: il pubblico risponde meglio a storie con contorni netti. Dove questa linearità manca, l’attenzione vacilla. Gli altri conflitti attualmente esistenti -Il Sahel, lo Yemen, il Sudan - sono più complessi, presentano scenari affollati da molteplici attori e dinamiche storiche intricate, difficili da spiegare in un servizio televisivo o un reel di pochi secondi.
C’è poi un altro filtro, meno visibile ma altrettanto determinante: quello geopolitico. Alcuni conflitti restano sottotraccia non perché meno gravi, ma perché meno convenienti da esporre. Denunciare apertamente una guerra civile nel Golfo o nel Sahel può significare incrinare equilibri diplomatici o mettere a rischio forniture energetiche. Allo stesso modo, parlare delle miniere congolesi implica mettere in discussione il mercato globale delle batterie al litio e del cobalto, linfa vitale della transizione tecnologica. Le stesse istituzioni internazionali, chiamate a garantire neutralità, non sono immuni alle pressioni politiche ed economiche. Le missioni di pace, le risoluzioni, persino le condanne ufficiali appaiono spesso diseguali e si riflettono nei media e nei social, contribuendo a consolidare un sistema di empatia selettiva. Ciò che non ci viene mostrato, raccontato, spiegato, non ci tocca.
Ad alimentare questa concezione elitaria dello sdegno vi è anche un processo psicologico da non sottovalutare. Il contesto di iperinformazione in cui viviamo crea una sorta di meccanismo di difesa contro il costante bombardamento di notizie. Ogni giorno siamo esposti ad articoli di guerre, crisi climatiche, femminicidi, disastri naturali. Per proteggerci, sviluppiamo una sorta di indifferenza selettiva: per non sentirci sopraffatti ci concentriamo su un solo tema, ignorando gli altri.
Infine, c’è un fattore umano che nessun algoritmo o strategia politica può spiegare da solo: la psicologia dell’empatia. Studi sulle neuroscienze culturali hanno dimostrato come la percezione di prossimità – linguistica, religiosa, geografica – condizioni l’attivazione delle aree cerebrali coinvolte nella risposta empatica. In parole semplici ci indigniamo di più per chi percepiamo come affine. Gaza, con la sua vicinanza storica e culturale all’Europa, ci sembra “più vicina” delle atrocità in Darfur o dei drammi in Yemen. È un meccanismo antico che oggi si traduce in una vera e propria geografia morale distorta: alcune vite, purtroppo, finiscono per contare meno di altre.
L’indignazione selettiva non è sinonimo di ipocrisia (o non solo), ma nasce dall’intreccio di limiti cognitivi, pressioni algoritmiche, interessi geopolitici e schemi narrativi. Riconoscerne i meccanismi è il primo passo per superarla e costruire una coscienza più consapevole. Una coscienza che non si attiva e dissolve al ritmo di un feed, ma che sappia rivolgere lo sguardo anche verso le zone d’ombra. Non per dovere astratto, ma perché dietro ai numeri e le statistiche restano vite, storie, volti che meritano attenzione e dignità. Anche se non fanno notizia.
Indignazione
Kappa e Spalla 01.09.2025, 17:35
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