Con la chiusura della sessione parlamentare autunnale, è finito lo sciopero della fame dei sanitari svizzeri davanti al Palazzo federale. Tra i sostenitori di questa protesta, Flavio Del Ponte, già chirurgo della Croce Rossa Internazionale sui maggiori teatri di guerra. Dall’uscita del suo libro Dissonanze. Storie di un chirurgo di guerra (Dadò 2025), Del Ponte «si è risvegliato – come gli piace dire – dal torpore del pensionamento».
Qual è il bilancio di questo sciopero della fame?
Sarò onesto, non ci facevamo grandi illusioni sulla reattività del nostro governo. Il Ministero degli Affari Esteri ha fatto l’orecchio sordo all’appello dei medici. Ma noi, come sanitari, abbiamo l’obbligo di esercitare il nostro mestiere di curare chi soffre, dunque con questa azione abbiamo voluto non solo sensibilizzare l’opinione pubblica ma anche chiedere prese di posizione chiare al nostro governo: in particolare che si adoperi con ogni mezzo a disposizione affinché le forze armate israeliane cessino gli attacchi su civili, operatori sanitari e strutture sanitarie. Avevamo inoltre già chiesto che si aprisse un corridoio umanitario dalla Svizzera verso la Striscia e che le autorità israeliane garantissero il libero accesso di tutti gli aiuti umanitari alla popolazione forniti dalle istanze competenti.
In occasione del vertice ONU tenutosi il 22 settembre a New York, la Francia e altri cinque paesi hanno riconosciuto lo stato di Palestina, «nell’interesse della pace». Il 21 settembre lo stato palestinese è stato formalmente riconosciuto da Regno Unito, Canada, Australia e Portogallo. Sono oggi 157 su 193 gli stati membri delle Nazioni Unite che hanno fatto questo passo. Quella del Consiglio federale è una posizione ormai minoritaria. Ha senso difenderla?
Il blocco dei paesi europei, Svizzera inclusa, che non hanno ancora fatto il passo di riconoscere lo stato palestinese si nasconde dietro l’esile pretesto che non sia il momento opportuno e che occorra temporeggiare. In questo senso questi paesi fanno il gioco di Israele e di chi lo protegge. Il riconoscimento del popolo palestinese, geograficamente e politicamente, per il solo fatto che questo popolo esiste è un atto necessario e dovuto. Come Operatori sanitari svizzeri contro il genocidio abbiamo da tempo chiesto al governo svizzero che riconosca lo stato di Palestina.
Il 16 settembre la commissione internazionale d’inchiesta, nominata dal Consiglio dei Diritti umani dell’ONU e presieduta dalla magistrata Navi Pillay, già giudice alla Corte penale internazionale e Alta Commissaria alle Nazioni Unite, ha concluso che quello perpetrato da Israele in Palestina è genocidio. Cosa ne pensa?
Già a gennaio 2024 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia aveva indicato misure vincolanti di prevenzione del presunto genocidio, misure che Israele non ha mai riconosciuto né, di conseguenza, rispettato. Quelle raccomandazioni nascevano da osservazioni e report che indicavano segnali di un genocidio in corso. Il genocidio è da mesi sotto gli occhi del mondo e il lavoro della commissione d’inchiesta dell’ONU oggi conferma appieno i dubbi avanzati dalla Corte dell’Aia quasi due anni fa.
La mozione che chiedeva di adottare sanzioni e di sospendere la cooperazione economica e militare con Israele, per non aver adempiuto ai propri obblighi internazionali, è stata rigettata dalle due Camere del Parlamento elvetico. Come avete accolto questa notizia?
Come medici ci vergogniamo per l’inerzia, per la sudditanza delle nostre istituzioni a considerazioni aliene, che è rottura della nostra tradizione umanitaria storica. La Svizzera dà un’immagine pietosa di sé, mentre il popolo della Striscia di Gaza viene affamato e massacrato in modo spietato. Ricordo che nel caso del conflitto in Ucraina la Svizzera si era subito allineata alle sanzioni della Comunità Europea contro la Russia. In questo caso invece nessuna azione efficace è stata promossa dalla Svizzera. Perché?
Nel frattempo, è stato confermato l’acquisto di droni di ricognizione di fabbricazione israeliana, per una spesa di 280 milioni di franchi.
Sì, e questi droni, come tutti sanno ormai, non sono neppure veramente adeguati ai bisogni del nostro territorio. Inoltre la Svizzera acquisterà dagli Usa aerei caccia per oltre 6 miliardi di franchi.
L’OMS ha registrato nella Striscia di Gaza almeno 4 mila bambini che rischiano la vita per le ferite o le malattie infettive e che non possono venire curati sul posto. Il Consiglio federale ha appena accettato di accogliere nelle strutture sanitarie svizzere una ventina di bambini. Questa decisione risponde alle vostre attese di operatori sanitari?
Naturalmente il nostro scopo è salvare vite, dunque questi bambini saranno accolti con la massima cura. Ma devo dire che, personalmente, ritengo questa operazione piuttosto un alibi, un modo per la Svizzera di lavare la propria cattiva coscienza per il suo immobilismo. La sola incognita a livello diplomatico di questa operazione è l’accordo che Israele dovrebbe dare a questa evacuazione, ma non si vede come questo permesso possa essere negato. Certamente si tratta di un gesto privo di rischi d’ordine politico per la Confederazione, una buona occasione per esibire generosità. Quello che andava fatto subito, per salvare tante vite in pericolo, era far entrare immediatamente aiuti essenziali e personale sanitario adeguato e preparato, aprendo il corridoio umanitario verso Gaza.
La protesta del personale sanitario non è isolata, dappertutto in Svizzera la gente sta scendendo in piazza: sabato 27 settembre ci sono state manifestazioni pacifiche a Bellinzona, Zurigo, Winterthur, San Gallo: solo a Ginevra c’erano tra le 6mila e le 10mila persone.
Abbiamo assistito a uno scollamento graduale tra la politica della Confederazione e il sentire della popolazione. Adesso questo scollamento è diventato una spaccatura. La polarizzazione che ne deriva non promette nulla di buono.
Ignazio Cassis è stato contestato a Bellinzona, qualche giorno fa. Immagini che si vedono raramente dalle nostre parti…
Non si può dire che la contestazione di un centinaio di persone davanti al Teatro Sociale di Bellinzona in solidarietà per Gaza sia stata violenta. Semmai è significativo che nessun politico sia uscito dal teatro dove si stava svolgendo il meeting per andare a incontrare i manifestanti e aprire un dialogo.
E poi c’è la Global Sumud Flotilla, di cui fanno parte sei imbarcazioni svizzere, anche ticinesi, già attaccata in acque internazionali…
L’unica espressione autentica della volontà della gente di aiutare i gazawi e la sola azione messa veramente in campo per interrompere questa violenza è quella della flotilla. Azione simbolica, certo, con la quale però centinaia di persone stanno mettendo a rischio la propria vita a difesa delle vite dei palestinesi in pericolo. La Svizzera, come diversi altri stati europei, si accontenta di parole, ma nessuna azione concreta è stata fino ad ora attuata. Credo anch’io che la Sumud Flotilla sia una risposta forte alla mancanza di determinazione dei nostri paesi. Indipendentemente dall’esito della missione, è il solo gesto di coraggio che riesca a mitigare la nostra vergogna per l’inerzia dei governi.
Dal punto di vista di un medico umanitario, cosa c’è di nuovo in questa guerra?
Capiamoci: qui non si parla più di guerra. Una guerra è quella tra due armate che si combattono. Qui invece siamo di fronte a una potenza militare che ha messo in atto una carneficina, che dura da quasi due anni, quasi 730 giorni, contro una popolazione inerme, in risposta ad un altro atto infame, compiuto da un gruppo terrorista in un giorno, il 7 ottobre 2023. Si dovrà continuare a parlare di genocidio. Dall’inizio degli attacchi, sono stati uccisi circa 1800 operatori sanitari, il tasso di mortalità per il personale medico è il più alto mai registrato, da quando possediamo dati in merito. Persino l’aiuto umanitario è stato snaturato: trasformarlo in arma di guerra non è un fatto nuovo nella storia dei conflitti, è già accaduto in passato. Ma Israele ha fatto di questa pratica un sistema criminale, impedendo l’aiuto umanitario e disintegrando alla radice la speranza di sopravvivenza, con l’interruzione delle forniture umanitarie, la devastazione delle strutture sanitarie, la sparizione del personale medico e dei reporter che hanno la missione essenziale di testimoniare e farci aprire gli occhi sull’orrore in corso.
Una protesta da parte del personale sanitario svizzero è piuttosto inedita, di solito si tratta di un settore professionale che preferisce la discrezione.
La discrezione è un po’ nella natura di noi svizzeri. Non è nei nostri costumi alzare la voce. Il corpo sanitario, poi, è tradizionalmente riservato, anche per etica professionale. Ma a questo punto ogni silenzio è complice. Questo movimento è nato nello scorso aprile da un gruppo di medici ticinesi. In primavera erano giunti al Governo della Confederazione e al Ministro degli Affari Esteri almeno tre appelli affinché il nostro paese prendesse posizioni nette sulla crisi umanitaria e aprisse un corridoio umanitario verso e da Gaza. Le risposte ai nostri appelli si sono fatte attendere a lungo e non esito a definirle indecenti. Perciò, per far sentire la nostra voce, ci siamo ispirati allo sciopero della fame che i sanitari italiani hanno messo in atto durante l’estate. Lo ripeto, accogliere i feriti nei nostri ospedali è solo uno dei due canali del corridoio umanitario che avevamo chiesto di aprire: la Svizzera avrebbe dovuto impegnarsi soprattutto per poter entrare nella Striscia e portare soccorso immediato. Questo solo avrebbe mitigato l’entità dell’eccidio. Personalmente, pensavo fosse questa la strada da percorrere. Accogliere 20 feriti da Gaza oggi è un primo atto di buona volontà da parte del Governo svizzero, ma solo con delle sanzioni a Israele il corridoio umanitario per Gaza potrebbe essere aperto.
Con la fine dello sciopero della fame, la vostra protesta si ferma?
No di certo. Siamo determinati a smuovere questo governo dalla sua inerzia e mancanza di coraggio con azioni pubbliche e pacifiche che dicano qual è la nostra posizione. Boicotteremo l’azienda farmaceutica Mepha, del gruppo israeliano Teva che sostiene l’occupazione dei territori palestinesi. A ottobre con un flash mob ricorderemo i 1800 colleghi uccisi durante questi due anni di barbarie, con camici stesi sulla piazza federale… La Svizzera non può restare spettatrice di questa carneficina, perché ha degli obblighi come paese firmatario di tre documenti che sono i pilastri del diritto internazionale: la Dichiarazione Universale dei diritti umani, promulgata nel 1948; la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio adottata all’unanimità dai paesi dell’ONU, sempre nel 1948; le Convenzioni di Ginevra, per la protezione dei civili in tempo di guerra, conchiuse nel 1949. Queste sono le basi della nostra civiltà. In Svizzera inoltre è nata la Croce Rossa: questo significa che la vocazione umanitaria fa parte della nostra identità, se non la difendiamo noi chi lo farà? Sono convinto che oggi la Svizzera dovrebbe sentire il dovere di ridare la priorità al diritto umanitario internazionale al di sopra di ogni altro interesse o considerazione politica.

Immagine di Copertina, Dissonanze. Storie di un chirurgo di guerra. Armando Dadò editore, Locarno 2025.
Flavio Del Ponte è autore del libro Dissonanze. Storie di un chirurgo di guerra (Armando Dadò editore, Locarno 2025) e sarà presente al Book City Festival di Milano: Chirurgo di guerra, costruttore di pace. Un dialogo con Flavio Del Ponte. Intervistato da Annalisa Izzo e in dialogo con Federico Oliveri, Università di Camerino e Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace Università di Pisa.
16 novembre ore 18.00, Pontificio Istituto Missioni Estere, Sala Crotti, Milano.
Radiogiornale delle 12.30 dell’08.09.2025: Il servizio di Alessio Veronelli sullo sciopero della fame per Gaza
RSI Info 08.09.2025, 12:30
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Gaza dall’interno, sguardo dalla Svizzera, e Israele?
60 minuti 22.09.2025, 20:45