Società

Separare l’arte dall’artista, o boicottare? Tra le due, un’umile proposta

Rupnik, Allen e tutti gli altri: riflessioni sulla necessità di un’integrazione della conoscenza. Senza dimenticare la misoginia di Seneca, Schopenhauer, Moravia...

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Mia Farrow, Ronan Farrow e Woody Allen nel 1990

  • IMAGO / MediaPunch
Di: Valentina Mira 

Dal punto di vista artistico, è l’elefante nella stanza. Che qualcuno lo nomini, dunque, e ne tenti una disamina è - per alcuni e di certo per chi scrive - pressante. Parlo della distinzione tra opera e artista, soprattutto nel caso in cui l’artista sia accusato di gravi reati. E delle soluzioni trovate finora dalla critica, dal pubblico, dagli addetti ai lavori. Ci arriveremo con degli esempi.

17:40

Marko Ivan Rupnik

Strada regina 25.11.2023, 18:35

Primo caso: il caso Rupnik., raccontato dal libro dell’avvocata Laura Sgrò in Stupri sacri (Rizzoli, 2025). Padre Marko Rupnik è accusato di abusi sessuali, psicologici e spirituali su suore appartenenti alla Comunità Loyola, da lui fondata negli anni Ottanta in Slovenia; le accuse sono iniziate a emergere nel 2021, e sono di natura gravissima. Cosa c’entra l’arte? Tutto, poiché Rupnik è uno dei più influenti artisti sacri contemporanei, i suoi mosaici sono nei luoghi di culto più importanti (la cappella Redemptoris Mater in Vaticano, il santuario di San Giovanni Paolo II a Cracovia, la basilica di Nostra Signora del Rosario a Lourdes); sono 228 le sue opere d’arte sacra in giro per il mondo, costosissime e riprese costantemente dai media cattolici.

In Rupnik l’arte è strettamente connessa all’abuso. Come lo è per quel tipo d’uomo la religione, la comunità. Il concetto sotteso è qualcosa come “Dio sono Io”. Ne deriva la definizione di “abuso spirituale” (oltre che sessuale, psicologico e così via), che si verifica quando un soggetto (in posizione apicale in un movimento o una comunità) sfrutta la sua posizione di leadership per manipolare o sottomettere uno o più individui.

Nel racconto degli stupri e delle manipolazioni che vi hanno condotto, il ruolo dell’arte per Rupnik era evidente. L’avvocata Sgrò afferma: «L’arte stessa può diventare uno strumento di perpetrazione del trauma quando incorpora elementi simbolici degli abusi subiti». Di conseguenza: «L’opera può essere scissa dall’abuso? La risposta è un secco no, perché l’opera, quale elemento del processo abusante, non può essere scissa dallo stesso». La procedura artistica era in effetti, in Rupnik, collegata agli stupri. Non entreremo nel dettaglio per buon gusto. Passiamo al secondo esempio, ma ricordiamo questo concetto cruciale.

02:43

Venezia, Woody Allen accolto da fan e proteste

Telegiornale 05.09.2023, 20:00

Secondo caso: Woody Allen. La fonte consigliata stavolta è il documentario (su Sky) Allen v. Farrow. La sintesi per comprendere la vicenda è la seguente: in tempi non sospetti, quindi prima del #MeToo, Woody Allen fu accusato di violenza sessuale su una bambina (la figliastra) di 7 anni, e si mosse con tutti i crismi patriarcali per rimuovere ogni sospetto. Attrici che lavoravano per lui si esposero in sua difesa, la carriera della madre della bambina fu rovinata, a livello processuale ci furono scorrettezze irrituali, a misura di uomo potente. Il caso è grosso e importante, la visione del documentario consigliata.

È forse possibile scindere l’uomo dall’artista, con una chirurgica, utilitaristica dissociazione, se l’artista usa i suoi film per un’autonarrazione vittimistica, in cui donne più giovani sono ossessionate da lui? Per chi scrive, no. Scegliere di non voler capire cosa spinge un artista a fare delle scelte tematiche e retoriche vuol dire scegliere di non voler capire a fondo l’opera. È, dunque, il boicottaggio la risposta? Lasciamo per un momento anche questa ipotesi aperta, e procediamo col prossimo esempio.

03:26

L'analisi del caso dello scrittore e della polemica che ha suscitato

RSI Info 12.02.2020, 19:50

Terzo caso: Gabriel Matzneff. Il libro è Il consenso di Vanessa Springora. Libro splendido, per inciso. La scrittrice incontrò da (troppo) piccola lo scrittore Matzneff, la dinamica fu delle più abusanti. Springora è lontana dal vittimismo e dall’autoassoluzione. Indaga la lupa in lei, il lupo in lui. Ragiona di arte. Ciò che rileva al fine del nostro discorso è che Matzneff nei suoi libri raffiguri dei ragazzini come dei diavoletti tentatori. L’arte viene usata per perpetrare l’abuso e raccontarselo, al contempo, come se fosse responsabilità dell’abusato di turno. Bambini. Qui, come nel caso precedente, l’arte è magia nera.

Quarto caso: J.K. Rowling. Autrice di una saga tra le più vendute di sempre, tradotta in ogni lingua, viva e morta. Autrice, anche, di una lunga serie di tweet e azioni di lobbying contro le persone trans. Non una stupratrice. Non una molestatrice. Caduta dal piedistallo che le era stato costruito sotto i piedi dai fan, la sua visibilità l’ha resa imperdonabile. L’accanimento nei suoi confronti, in positivo e in negativo (fan e detrattori) è stato in scala molto maggiore rispetto a quello subìto (o non subìto affatto) da veri e propri stupratori seriali, pedofili e affini, che usano l’arte per abusare meglio.

Si è mischiata la misoginia - la gioia ferale di prendersela con una donna, l’abitudine inconscia alla caccia alle streghe -, con la delusione quasi infantile rispetto alla sua infallibilità, e pure con la rabbia più che giusta e legittima che le sue idee, sorprendentemente vicine a quelle della destra estrema, esprimono contro i corpi oppressi. Si è creato un cortocircuito vittimistico in cui l’autrice si trincera ancora. Questo caso è più complesso dei precedenti. Anche perché Harry Potter non è transfobico, altre sue opere più recenti a firma di Robert Galbraith sì.

Quinto caso: tutta la letteratura mondiale fino a oggi. Scriveva Seneca nel De ira: «l’ira è un vizio tipicamente femminile e bambinesco». Le donne non andavano dunque ascoltate se arrabbiate. Scriveva Schopenhauer in L’arte di capire le donne: «Il sesso femminile, più giustamente che bello, si potrebbe definire inestetico»; e ancora: «I cervelli più eminenti di tutto il loro genere non hanno mai potuto realizzare un solo lavoro veramente grande»; e ancora: «Le donne non dovrebbero disporre di un patrimonio». La donna avrebbe “bisogno di un padrone”, e così via. Abbiamo poi Moravia, che in tempi più recenti e pur essendo stato l’autore de La ciociara, in dialogo con Carla Ravaioli (Conversazioni con Alberto Moravia sulla donna), definiva i ciociari come animali.

Classismo, razzismo, chi più ne ha più ne metta. Si potrebbe essere ancor più analitici - scrivere un tomo pieno d’esempi di questo tipo - ma non lo si farà per questioni di spazio. Ciò che è evidente è che l’arte di tutti i tempi, a livello mondiale, non è mai stata un’isola rispetto al mondo circostante; ne riflette e talvolta incentiva virtù, ma anche vizi.

Negli ultimi anni qualcuno è caduto dal pero. È successo quando persone poco avvezze alla lettura, o alla riflessione, hanno appreso che i loro miti non erano miti, ma persone. Che sbagliavano, che talvolta erano perfino peggio del loro pubblico. E le risposte a questa scoperta sono state due: una è stato il boicottaggio, e questa è stata tacciata di cancel culture. La seconda è stata voler “dividere l’arte dall’artista”. Questo articolo nasce dalla frustrazione per l’insufficienza di entrambe le “soluzioni”. Pur rilevando la soggettività delle stesse, e il diritto inalienabile per le persone sia di boicottare, sia di scindere l’opera dall’autore. Ma a parere di chi scrive chi ama davvero l’arte non può permettersi soluzioni facili.

Chi ama davvero l’arte, e dunque la conoscenza, non può sposare la scelta della non-conoscenza. Chi ama davvero l’arte ne fruisce perché genuinamente e spasmodicamente interessato alle tante gradazioni dell’animo umano. Non scinderebbe l’arte dall’artista nemmeno se volesse, perché non può. Perché se un autore usa i film per costruire un falso Sé, e con quel falso Sé stupra le ragazzine e molesta le colleghe, ebbene, quei film vanno indagati più a fondo e non con gli occhi del bambino che cerca maestri e miti. Perché se l’intera letteratura mondiale è cosparsa di sessismo, razzismo, classismo, abilismo, e dei più brutali e violenti - o talvolta invece ambigui, soprattutto oggi - non la si può censurare (peculiare che la proposta non sia venuta da movimenti di massa ma “dall’alto”, da parte di chi rende tutto mercato, anche i diritti della gente; si pensi ad Amazon e alla premessa antirazzista per Via col vento).

Se un autore ha la tendenza ad autorappresentarsi come un Cristo in croce, anche con il filtro dell’umorismo, è l’autore stesso che sta attuando un gioco mettendosi dentro all’opera. Rendendosi da essa inscindibile. Se l’autore, nell’opera e nella vita, non si prende delle responsabilità, la società può comunque attribuirgliele. Dire “non guardate più i film di Woody Allen” non è una posizione amica della conoscenza, perché i film sono lì, e magari ci aiutano a capire proprio come funziona la psiche di un sessista. Capire come il narcisismo di certi personaggi si avvalga dell’arma magica della creatività ne spezza la magia.

Come sembrano teorizzare alcuni di questi autori (e alcuni lo fanno in modo esplicito), “a dire le cose ad alta voce si rompe il giocherello”. Se un tale autore è bambino, il pubblico può essere adulto. Smettere di cercare miti, idoli, rappresentanti, e contemporaneamente impedire quell’esercizio di dissociazione, di scissione, che viene consigliato da chi l’arte non ha alcuna intenzione di capirla, nel momento in cui propone di “scindere l’opera dall’artista”.

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La statua dedicata a Indro Montanelli imbrattata con barattoli di vernice rossa nel 2020

  • IMAGO / Matteo Gribaudi

La risposta è quindi - come fu detto nel caso di Indro Montanelli, l’arcinoto giornalista italiano che negli anni Trenta comprò una sposa bambina in Etopia - “contestualizzare”? Se contestualizzare significa redimere, no (anche perché non siamo in chiesa). Se contestualizzare significa deresponsabilizzare e smettere di chiamare pedofilo e stupratore uno solo perché all’epoca si usava essere pedofili e stupratori nei Paesi colonizzati, a maggior ragione no. La risposta è capire. Capire per migliorare come società, come esseri umani.

La risposta è accettare le reazioni - come la vernice fucsia su una statua, davvero il minimo che la rabbia degli oppressi possa produrre -, ma poi smetterla di creare miti, smetterla di erigere statue, e infine analizzare. Comprendere che non tutti gli autori scrivono servendo il bello, il vero, la luce o ciò che vi somiglia; che alcuni lo fanno per depistare, manipolare, e di buio si nutrono. Questo è oscuro, questo è orribile, ma è vero. Ed è interessante. Come l’animo umano sa essere.

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