La parità di genere nei media è ancora un’utopia, anche se la Svizzera mostra dati molto positivi rispetto alla situazione internazionale. Su questo tema rinviamo al nostro approfondimento:
https://rsi.cue.rsi.ch/cultura/societa/Uno-schermo-di-cristallo-difficile-da-sfondare--3320450.html
Lo studio Ninety-Six Years of DataReveals Persistence ofWomen’s Underrepresentation Behind the Scenes mostra che il divario storico è abissale: mentre oggi le registe sono il 16% della forza lavoro nei film top, storicamente le donne hanno rappresentato solo l’1,9% di tutte le nomination alla regia nella storia degli Oscar. Le vincitrici si contano su una mano: in 96 anni, solo 3 donne hanno vinto l’Oscar alla regia (Kathryn Bigelow, Chloé Zhao, Jane Campion): il 3,1% del totale. Inoltre, lo studio sottolinea che c’è stata almeno una donna nominata in ogni categoria analizzata solo 5 volte in tutta la storia (1993, 2003, 2017, 2020, 2024).
E se allarghiamo lo sguardo con un’ottica intersezionale? L’intersezionalità «analizza come i molteplici tipi di discriminazione e di oppressione si sovrappongano e interagiscano tra loro. Ha un approccio teorico, metodologico e di intervento che considera la pluralità degli aspetti che compongono le identità individuali e come questi si intreccino; è sia metodo di indagine empirica che approccio interpretativo», spiega Francesca Pili, autrice di L’intersezionalità al cinema (Catartica, 2025). Negli Stati Uniti, il 67% delle personagge con ruoli parlati è bianco, il 17% nero, il 4% latino-americano, il 9% asiatico o asiatico-americano, notaa Luzen (It’s a Man’s (Celluloid) World, 2025).
Soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito il dibattito si è spostato dal se rappresentare al come rappresentare, introducendo test alternativi e critiche al “tokenismo”. Ecco quindi il “DuVernay Test”, chiamato così in onore della regista Ava DuVernay, che valuta se le persone nere o appartenenti a minoranze etniche hanno una vita propria e non servono solo come “spalla” per le persone bianche (Ben Child, Ava DuVernay backs ‘DuVernay test’ to monitor racial diversity in Hollywood, in «The Guardian», 2016). In Francia la situazione è stata portata alla ribalta da Aïssa Maïga, che ha dato il via a un’opera collettiva, denunciando come le attrici nere siano relegate a ruoli stereotipati come infermiera, donna delle pulizie, immigrata senza documenti. 16 attrici nere sono le autrici di Noire n’est pas mon métier, non tradotto in italiano (Éditions du Seuil, 2018).
La rappresentazione della disabilità nelle serie TV statunitensi, nonostante alcuni esempi virtuosi recenti, appare ancora bloccata. Analizzando 350 serie uscite tra il 2016 e il 2023, Meredith Conroy, Cameron Espinoza e Alexis Romero Walker rilevano che solo il 3,9% dei personaggi ha una disabilità, una cifra irrisoria rispetto alla popolazione reale con disabilità, che è circa il 25% (The State of Disability Representation on Television: An Analysis of Scripted TV Series From 2016 to 2023, Ruderman Family Foundation e The Geena Davis Institute, 2024).
Non c’è alcun trend di crescita significativo negli otto anni osservati, né differenze rilevanti tra streaming e TV tradizionale. Inoltre, solo il 21% dei personaggi con disabilità è interpretato da chi vive realmente quella condizione. La disabilità è rappresentata più spesso tra personaggi bianchi (4,4%) che tra persone razzializzate (3,1%), ed è molto frequente nella comunità LGBTQIA+ (8,5%). Persistono tropi dannosi come la pornografia motivazionale (la disabilità usata per ispirare le persone non disabili) o la narrazione della disabilità come “peso” per sé e le altre persone. Inoltre, nei film chi ha una disabilità è al lavoro molto meno spesso (56,9%) rispetto alle chi è senza disabilità (67,8%). L’unica nota positiva è il calo statisticamente rilevante dell’uso di linguaggio abilista e insulti.
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Il pattern dominante nei media è l’assenza. L’assenza di chiunque è diverso da ciò che è considerato la norma, da chi ha sempre occupato spazio e fatto sentire la propria voce in maniera maggioritaria: l’assenza di donne che parlano di qualcosa che non sia un uomo, l’assenza di persone razzializzate e disabili che non siano stereotipi ma personaggi a tutto tondo.
Al.Di.Qua. Artists è «la prima associazione italiana di categoria di lavoratrici e lavoratori dello spettacolo portatrici di corpi disabilitati. Nata nel 2020, dopo che artistə di diverse discipline e disabilità si sono riunitə per ragionare e proporre istanze in merito all’accessibilità del mondo nel lavoro artistico», è schierata da anni per una equa rappresentazione di «artiste e lavorat dello spettacolo accomunate dall’essere orgogliosamente portatrici di corpi disabilitati».
Nel loro manifesto, dichiarano: «Non sono i nostri corpi il problema, non le nostre competenze fisiche, motorie, sensoriali, neurologiche, cognitive. Noi non possiamo più accettare che sotto un unico confortevole termine dal sapore medico e scientifico vengano raccontati e appiattiti i nostri corpi, le nostre storie, le nostre mutevoli identità». Reclamano agency: «Ci è stato detto che il nostro essere corpi marginalizzati è diverso dalle altre esperienze di minoranza. Ci è stato insegnato a dire permesso, grazie, scusa. Ci è stato imposto di non pretendere. Di noi, da sempre, discutono gli abili, e no, qui il maschile non è casuale. Sui nostri corpi “gli altri” fanno esperimenti, creano visioni, scrivono narrazioni, traggono ispirazioni». E infine reclamano il proprio spazio: «Non siamo qui PER VOI. Siamo qui PER NOI. Per prendere lo spazio che non ci è mai stato concesso. Per prendere parola. Per creare un precedente a quelli che verranno dopo. Per formarvi. Per formarci. Per smettere di essere eccezioni».
Qualcosa si sta muovendo anche in territorio italofono, quindi. I Diversity Media Awards premiano da 10 anni i personaggi e i contenuti media che hanno contribuito a una “rappresentazione valorizzante della diversità nelle aree genere e identità di genere, orientamento sessuale ed affettivo, aspetto fisico, etnia, età e generazioni, disabilità”. Tra le categorie, “Miglior film italiano”, “Miglior serie TV italiana”, “Miglior serie TV straniera”, ma anche “Miglior prodotto digital” e “Miglior podcast”.
Pili, nel suo saggio, porta numerosi altri esempi positivi di rappresentazione rispettosa e realizzata in ottica intersezionale nel cinema di tutto il mondo, con un’attenzione speciale rivolta alla Palestina: da Crepa padrone, tutto va bene di Jean-Luc Godard e Jean-Pierre Gorin, del 1972, a Bye Bye Tiberias, di Lina Soualem, del 2025, passando per Pride di Matthew Warchus, del 2014 e Nomadland di Chloé Zhao, del 2020 (L’intersezionalità al cinema, 2025).
Non ci resta che augurarci con l’autrice che l’attenzione a una rappresentazione intersezionale e rispettosa di ogni identità non resti una mera teoria, ma una «necessaria e imprescindibile prassi quotidiana», anche nel cinema.

Giornata internazionale delle persone con disabilità
Il Quotidiano 03.12.2025, 19:00
https://rsi.cue.rsi.ch/cultura/film-e-serie/Le-personagge-del-cinema-italiano--1780949.html







