Ci sono immagini cinematografiche capaci di restituire e di far conoscere la realtà più di libri, articoli e testimonianze orali. Come dimenticare, ad esempio, Germania anno zero, la pellicola che Roberto Rossellini girò nel 1948 tra le macerie di Berlino nell’immediato dopoguerra? Lo scenario della distruzione (vero perché reale, non ricostruito da abili scenografi e tanto meno da effetti speciali in post-produzione), è stato in grado di trasformare i fotogrammi della pellicola in immagini-simbolo degli sfaceli provocati dalla guerra.
Le rovine di oltre tre milioni e mezzo di appartamenti distrutti e di 40 centri urbani annientati più del 50%, non furono infatti il funesto “primato” della Germania del 1945: a quella data in tutta Europa e in Unione Sovietica, si potevano “girare” film con scenografie reali come quelle riprese da Rossellini (in Italia, ad esempio, più di due milioni di edifici furono distrutti e 5 milioni danneggiati). Fu questo lo scenario che i governi d’Europa ebbero davanti agli occhi quando si apprestarono a varare leggi per la ricostruzione. Era lo stesso “paesaggio” che si trovarono ad affrontare gli architetti nell’immaginare le nuove città del dopoguerra, un paesaggio fatto non solo di macerie edilizie, ma anche umane e psicologiche, come quelle ben descritte dal cinema neorealista di Vittorio De Sica come Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948).
La prima inderogabile necessità fu dare una casa ai milioni di sfollati che “abitavano” le macerie o le baracche di fortuna costruite ai margini delle città. Cosa fossero le baracche del dopoguerra (e di molti anni successivi) lo testimoniano altri film: uno è Miracolo a Milano, girato da De Sica, insieme a Cesare Zavattini nel capoluogo lombardo nel 1950, a cinque anni dalla fine del conflitto mondiale. Un altro è Accattone del 1961, di Pier Paolo Pasolini, ambientato al Pigneto, una delle borgate romane nate durante il fascismo nelle quali erano cresciute vere e proprie baraccopoli di sfollati. Bisognava ripartire da zero: ciò rappresentò uno stimolo entusiasmante per gli architetti che lo affrontarono con il desiderio di ricostruire le città secondo progetti globali di architettura, edilizia, urbanistica e qualità della “nuova” vita.
«Noi -scriveva un anonimo architetto sulla rivista A-Attualità Architettura Abitazione Arte nel 1946- dobbiamo ricominciare da capo, dalla lettera A, per organizzare una vita felice per tutti. Noi ci proponiamo di creare in ogni uomo e in ogni donna la coscienza di ciò che è la casa, la città; occorre far conoscere a tutti i problemi della ricostruzione perché tutti, e non solo i tecnici, collaborino alla ricostruzione». Davanti al “grado zero” rappresentato, non da «rovine, in cui l’intero è ancora riconoscibile ed emana un’aura romantica di nostalgia del passato, ma piuttosto di un materiale informe da riplasmare» (così lo “fotografò” Umberto Eco), quella espressa dalla rivista A, è l’utopia che diventa l’orizzonte della nuova progettazione, la quale, come scrisse l’architetto Giò Ponti (1879-1979), voleva porre «l’uomo al centro della tecnica del costruire».
E’ la stessa filosofia che nel 1957, in quella Berlino che abbiamo ricordato con il film Germania anno zero, guidò la rinascita del quartiere Hansaviertel raso al suolo dai bombardamenti aerei. A questo progetto, stimolati da un concorso internazionale, parteciparono i maggiori architetti del momento come Walter Gropius (1883-1969), Le Corbusier (1887-1965), Oscar Niemeyer (1907-2012) e Alvar Aalto (1898-1976).
In un’area di 25 ettari sorsero così trentacinque edifici per un totale di 1160 appartamenti, centri commerciali, una sala cinematografica con teatro, la biblioteca, il nido d’infanzia, la stazione della metropolitana. Il quartiere è ancora una meta turistica proprio per essere un esempio di modernità abitativa.
Tra le strutture più interessanti ci sono: la Gropiushaus che Gropius, il fondatore del Bauhaus, realizzò con l’architetto berlinese Wils Ebert (1909-1979), con i balconi che caratterizzano esteticamente il palazzo, e l’Edificio sospeso di Oscar Niemeyer che, come pure la struttura ideata da Alvar Aalto, si poneva l’obiettivo di ottenere appartamenti che godessero del verde naturale dell’attiguo parco Tiergarden.
Luciano Baldessari (1896-1982), l’unico architetto italiano a partecipare al concorso, edificò invece un grattacielo con 17 piani e 131 appartamenti caratterizzati da bagni e cucine di piccole dimensioni per favorire maggiori spazi a soggiorni e camere, ma soprattutto a una loggia capace di funzionare come una stanza all’aperto.
Nell’“altra Germania”, a un centinaio di chilometri da Berlino al confine con la Polonia, in quella che era la Repubblica Democratica tedesca, c’è Eisenhüttenstadt, Città delle fabbriche del ferro (fino al 1961 Stalinstad) costruita nel 1950 in un’area industriale vicino a Fürstenberg. In quell’anno il SED, il partito unico socialista tedesco, decise la realizzazione di questo complesso di edifici ad uso residenziale affidando l‘incarico all’architetto Kurt W. Leucht (1913-2001). Lo stile adottato fu quello chiamato classicista sovietico, lo stesso che l’architetto aveva già adottato sulla famosa Karl-Marx-Allee nel quartiere berlinese Friedrichshain, ma con significative differenze: all’imponenza delle sue realizzazioni precedenti sostituì infatti costruzioni di quattro piani, luminose e caratterizzate da vasti cortili con giardini e parchi per i bambini. Leucht si pose infatti, come indirizzo progettuale per la costruzione dei palazzi e la definizione del disegno urbano, il principio salutista «Luce, aria e sole».
A Est come a Ovest, quindi, nei primi anni della ricostruzione, al di là di stili e ideologie, qualità del vivere e individuo, almeno nelle intenzioni, rappresentavano un binomio che sembrava inscindibile. Non durerà a lungo: purtroppo la coppia speculazione edilizia e cementificazione lo sostituirà in breve tempo.
Il gesto nell'architettura in stile Bauhaus
Attualità culturale 04.08.2020, 12:15
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