«Io non spero più niente, non nella pace né in altro» afferma la diciottenne Darina, appena quindicenne quando scoppiò la guerra, che con la sua famiglia viveva vicino a Cherson, nell’Ucraina meridionale, dove i soldati russi arrivarono già nei primi giorni dopo l’invasione. «Ho aspettato troppo a lungo mentre eravamo sotto l’occupazione; un anno e mezzo ad aspettare l’arrivo degli ucraini a salvarci. È stata abbastanza attesa per tutta la mia vita. Ora spero solo di vivere la mia vita».
Darina, tuttavia, non è la sola ad avere questo sentimento, e sorge spontaneo chiedersi come si percepiscono oggi i cittadini di questa nazione: come un popolo costretto a resistere con le armi puntate, o come una nazione eroica disposta a sacrificare tutto pur di difendersi? E in che modo questa percezione si è trasformata nel corso di questi tre anni?
Domande alle quali ha cercato risposta Davide Maria De Luca, attraversando il suo viaggio-inchiesta partito dal Donbass, per le linee del fronte, fino agli ospedali di Leopoli, così da comprendere non solo le impronte visibili del conflitto, ma soprattutto quelle nascoste dentro le persone, capaci di raccontare chi è davvero questo popolo in guerra.

Ucraina, lungo la linea del fronte
Falò 25.02.2025, 20:45
Da qualche tempo in Ucraina viene diffuso un nuovo spot per il reclutamento militare, realizzato nello stile di un anime giapponese: i soldati russi e nordcoreani vengono raffigurati come zombie famelici, mentre sullo sfondo un gruppo di ucraini è tenuto in ostaggio, e un giovane disperato non sa come aiutare il proprio Paese. All’improvviso entrano in scena gli eroi: un soldato che spara in piedi su una jeep in corsa, una ragazza dagli occhi enormi che guida i droni, un veterano con un braccio bionico. E gli zombie vengono annientati.
Una campagna la cui peculiarità più grande, però, è che non proviene dall’esercito ucraino, bensì da una sola unità militare: la celebre Terza Brigata d’assalto guidata da Andrij Bilecki, figura storica della destra radicale ucraina. I poster dello spot sono comparsi nelle principali città del Paese con un messaggio che, come per molte altre iniziative degli ultimi tre anni, è rivolto in particolare ai giovanissimi, sotto i 25 anni; terminati gli studi in effetti questi ragazzi non sono obbligati alla leva, cosicché l’esercito, in forte carenza di uomini, cerca di attirarli con ogni strumento possibile. Un marketing di guerra in cui gli ucraini si sono dimostrati particolarmente abili, producendo video e materiali di propaganda che disegnano un conflitto eroico, quasi epico, al quale si può partecipare anche solo con la destrezza di un joystick.
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Un richiamo a quell’ondata di entusiasmo patriottico che esplose nei primi giorni dell’invasione su larga scala, quando decine di migliaia di persone si arruolarono volontariamente, donarono soldi e materiali, prepararono molotov nelle proprie case. Ma a tre anni dall’inizio della guerra, guardando quelle immagini, ci si domanda se davvero gli ucraini oggi vivano questo conflitto come qualcosa di esaltante, come appunto un’avventura animata, anelando alla pace oppure al contrario quasi temendola.
Davide Maria De Luca inizia il suo viaggio in Donbass, nell’Ucraina orientale, e precisamente nei pressi di Lyman, dove si trova la cosiddetta “foresta d’argento”: un tempo ricca di pioppi e betulle bianche, ora costituita da tronchi carbonizzati, in cui le trincee evocano più i campi della Prima guerra mondiale rispetto ad un paesaggio fiabesco.
«La situazione per ora è sotto controllo, perché i russi li teniamo a bada, ma il futuro dipende dalle nuove reclute che arriveranno; i rimpiazzi sono vecchi, hanno 57, 58, 59 anni […] ma il problema principale sono le condizioni dei nuovi soldati: gli manca la salute e gli manca il morale. […] Io in tre anni non sono stato con le mani in mano […], ho visto cose che ora voglio solo dimenticare».
Sono le affermazioni di Camin, 45 anni, muratore prima del conflitto e al fronte dal marzo 2022, membro di una squadra di fanteria della brigata meccanizzata posizionata a circa quindici chilometri dalla linea del fronte, bersaglio dell’artiglieria e delle bombe plananti russe, ma fuori dal raggio della maggior parte dei droni. «La mia testa non funziona più come prima» confessa pensando alle tre concussioni subite «a volte parlo normalmente, altre mi sento stanco e voglio solo fermarmi».
Anche il suo maggiore Pavlov, vicecomandante del battaglione, racconta che in cinque anni l’intero reparto è stato ricostituito completamente più volte: oltre cinquemila tra morti, feriti, disertori o congedati per motivi di salute. Veterani come Camin ne restano pochissimi, e anche il sostegno della popolazione - afferma - è sempre più in calo, perché le famiglie non vogliono più sacrificare i propri cari e invocano la fine della guerra. «Anch’io sono stanco morto, ma ancora non c’è nessuno a darci il cambio».
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L’Ucraina è un paese molto esteso: 1500 chilometri da un capo all’altro, ossia la stessa distanza che c’è, ad esempio, tra Parigi e Varsavia. E la guerra non viene percepita ovunque allo stesso modo, con una conseguente emozione diffusa di forte risentimento. A Charkiv, vicina al fronte, molti sostengono addirittura che nella capitale “la guerra non esista”; a Kiev invece sono continui gli allarmi e i droni kamikaze, che visitano i cieli della città quasi ogni notte, ma le difese aeree limitano le vittime. I ristoranti e i locali restano dunque affollati, suscitando amarezza in chi non poteva permettersi certi lussi nemmeno prima dell’invasione. A distanza di tre anni, la guerra lascia tuttavia anche nella capitale le sue nefande tracce: «i senzatetto sono raddoppiati, da quarantamila a ottantamila persone» afferma la volontaria Ambra Vanoli, che aiuta nella distribuzione di pasti caldi e beni di prima necessità, «dopo tre anni la loro quotidianità è abbastanza drammatica, non c’è più molto spazio per la guerra, è un pensiero così pesante». Le persone, spiega infatti, hanno smesso di seguire ossessivamente le notizie belliche proprio per difendere la propria stabilità psicologica.
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Il giornalista recupera infine una testimonianza anche nell’Ucraina occidentale: la summenzionata giovane Darina, che sotto l’occupazione russa continuava a studiare online nella sua casa vicino a Cherson, dove cercava di sopravvivere con la famiglia. Il momento di fuggire si presentò dopo svariati bombardamenti e inondazioni, anche se con reticenza da parte dei genitori; «un loro amico» afferma Darina «all’inizio della guerra ha cercato di scappare con la famiglia, ma una scheggia di granata si è infilata nella testa della madre che è diventata disabile. Per questa ragione non osavo parlare a mia madre di scappare».
Il loro primo tentativo di fuga in effetti fallì ai posti di blocco russi, mentre il secondo andò fortunatamente a buon fine, da Mariupol attraverso Rostov e Belgorod, fino al ritorno in Ucraina. Giunte infine a Leopoli, Darina e la madre hanno ricostruito in parte la loro vita. La giovane oggi ha un lavoro, degli amici, un fidanzato, ma porta dentro incubi e paure profonde. «Io penso sempre alla guerra. La guerra è sempre con me. Ho intrusioni, mi spaventano i rumori molto forti. Mi spaventa l’idea che la mia vita venga rovinata ancora una volta e che io debba ricominciare di nuovo dall’inizio».
E come questa giovane donna, un intero Paese ha dovuto imparare a convivere con il trauma. Ma al contrario di quanto mostrino ancora oggi gli spot per attirare nuovi soldati, la guerra non è un cartone animato: la gente ci convive, ma a caro prezzo. Dal fronte del Donbass, agli ospedali di Leopoli, la guerra è quotidiana, è concreta, e lascia cicatrici visibili e soprattutto invisibili. Milioni di persone sobbalzano a ogni rumore, si svegliano di notte con gli incubi. E questo durerà a lungo, anche dopo gli sperati trattati di pace che vengono discussi in questi giorni, perché molti ucraini ormai hanno già smesso di sperare che le cose possano realmente cambiare.
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