Nel 1918, Luz Long e Jesse Owens compivano entrambi cinque anni: il primo festeggiava il compleanno in un palazzo signorile di Lipsia, circondato da regali e cibi squisiti; il secondo, invece, mangiando una zuppa in una baracca in Alabama, in compagnia dei suoi genitori e dei suoi fratelli, da poco ritornati da una giornata di lavoro nei campi di cotone.
Diciotto anni più tardi, le strade di Luz e Jesse si incroceranno in occasione della fatale estate berlinese del 1936, dove fu la voce di Hitler a dare il via ai Giochi Olimpici. Luz Long, biondo, occhi azzurri e di ottima famiglia ariana, era il beniamino del Terzo Reich. Il destino volle che si trovasse a sfidare nel salto in lungo un nero afroamericano, Jesse Owens. Di lì a poco, uno degli scatti più iconici della storia delle Olimpiadi, che ritrae i due atleti sorridenti, sdraiati sul prato fianco a fianco, che ridono e parlano, e una delle testimonianze olimpiche più commoventi mai registrate.
Quel giorno andava appunto in scena la gara di salto in lungo, una delle più attese dei Giochi. Ogni atleta aveva a disposizione tre salti per potersi qualificare. Luz Long era sul campo e già qualificato. Jesse Owens, invece, arrivò in affanno, perché aveva poco prima partecipato alle qualificazioni per i 200 metri che si sarebbero svolti il giorno seguente. Dopo due salti nulli, a Jesse Owens restava un ultimo tentativo. Ed ecco che avvenne la prima sorpresa: Luz Long, consapevole che la mancata qualificazione di Jesse gli avrebbe garantito l’oro olimpico, consigliò all’atleta afroamericano di staccare una trentina di centimetri prima. Jesse accettò il suggerimento e riuscì così a qualificarsi. Dopo una gara al cardiopalmo tra i due atleti, Jesse Owens trionfò. L’oro era cosa fatta, ma avvenne la seconda sorpresa: Luz Long spronò Jesse Owens a spingersi ancora oltre, alla ricerca del record olimpico. L’atleta afroamericano accettò il consiglio e riuscì ad arrivare agli 8.06 metri di lunghezza, superando per la prima volta la barriera degli otto metri in una gara olimpica di salto in lungo. A questo punto ecco la terza sorpresa, che è il motivo principale per cui la vicenda di questi due atleti è rimasta impressa in modo indelebile nella storia. Una stretta di mano sarebbe più che normale tra avversari, ma Luz Long, dopo il trionfo di Jesse Owens, si spinse oltre: gli andò incontro, gli alzò il braccio, lo abbracciò e fece mezzo giro di campo dell’Olympiastadion insieme a lui, sotto gli occhi di 100 mila spettatori, di Hitler e dei principali gerarchi nazisti seduti in tribuna d’onore.
Luz Long e Jesse Owens
Tutti gesti che, evidentemente, non passarono inosservati. Rudolf Hess, politico e generale tedesco, per intenderci il numero due della gerarchia nazista, telefonò a Luz poco dopo la vittoria e, in modo brusco e sbrigativo, lo intimò di non abbracciare mai più un uomo nero. La situazione non fu molto diversa per Jesse Owens negli Stati Uniti d’America: il presidente Roosevelt non si congratulò con lui e, in occasione di un ricevimento organizzato per celebrare le medagli vinte, Jesse e la moglie dovettero entrare dalla porta di servizio. Lo stesso trattamento che il presidente americano adottò nei confronti di Jesse Owens fu il medesimo nei confronti di tutti gli altri atleti afroamericani, perché probabilmente, con le elezioni in vista, Roosevelt non volema inimicarsi i voti di alcuni degli stati americani più conservatori. Un grande successo, dunque, che nascondeva delle conseguenze poco felici nella quotidianità dei due atleti.
Dopo le Olimpiadi del ’36, Jesse e Luz rimasero in contatto, promettendosi di rivedersi in occasione dei Giochi Olimpici di Tokyo 1940. Quelle Olimpiadi, come sappiamo, non ebbero mai luogo a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale e, così, la possibilità di incontrarsi di nuovo svanì.
Luz Long venne chiamato alle armi e, poco prima dell’estate del 1943, fu mandato in Sicilia. Da qui scrisse la sua ultima lettera all’amico Jesse Owens, che diventò il simbolo della loro esemplare umanità:
Mio caro Jesse, dove mi trovo sembra esserci solo sabbia e sangue. Io non ho paura per me, ma per mia moglie e il mio bambino che non ha mai veramente conosciuto suo padre. Abbiamo passato così poco tempo insieme. Il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere, ti chiedo questo. Dopo la guerra va in Germania, ritrova mio figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa terra.
Luz Long morirà in Sicilia poco dopo, il 14 luglio 1943. Jesse Owens rispetterà la promessa: conoscerà il figlio di Luz Long nel 1951 e, nel ’64, si ritroveranno all’Olympiastadion di Berlino, dove si faranno fotografare nello stesso luogo della celebre foto di Berlino 1936. La cosa sorprendente è che ancora oggi le famiglie hanno mantenuto un rapporto di amicizia, passando il testimone alla generazione dei nipoti. Nel 2004, in occasione dell’inaugurazione del rinnovato stadio di Berlino, le nipoti di Jesse Owens e di Luz Long, Gina Owens e Julia Vanessa Long, accenderanno insieme la fiamma olimpica. Un gesto che tiene viva l’esemplare testimonianza di coraggio, rispetto e passione che i due atleti donarono al mondo.
In un romanzo intenso e commovente, Berlino 1936 (Edizioni San Paolo), Giuseppe Assandri, racconta la vicenda, dall’infanzia dei due atleti, all’incontro fatidico, fino a ciò che accadrà loro dopo le Olimpiadi. Un periodo nevralgico del Novecento attraverso gli occhi dei due campioni. Giuseppe Assandri è ospite di questa puntata della Tana del Bianconiglio.
“Berlino 1936”
Nella tana del bianconiglio 07.09.2024, 15:45