Reportage

Ricostruire dopo una catastrofe: l’esempio di Erto

Il paese fu distrutto dal disastro del Vajont e un nuovo villaggio venne costruito a chilometri di distanza, portando a una dissoluzione della comunità

  • 13 giugno, 06:02
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Il bacino della diga del Vajont viene ormai tenuto vuoto

  • RTS
Di: Valérie Dupont (RTS)/sf 

Il 9 ottobre 1963, circa 300 milioni di metri cubi di roccia crollano nel bacino della diga del Vajont, a circa 100 chilometri a nord di Venezia, provocando un’onda alta 250 metri. Sessantadue anni dopo la tragedia, la cicatrice sulla montagna è ancora visibile.

“L’acqua ha devastato tutto il fianco sinistro del bacino, distruggendo tutte le case. Ha distrutto la frazione di San Martino”, spiega Antonio Carrara, sindaco di Erto e Casso, ai microfoni della RTS.

L’onda ha spazzato via tutto al suo passaggio, lasciando un pesante bilancio: 2000 morti, centinaia di abitazioni distrutte, migliaia di senzatetto.

Un trasferimento forzato

Dopo la tragedia, le autorità vollero ricostruire il villaggio di Erto altrove. “Abbiamo fatto un consiglio comunale in mezzo alla strada nel villaggio vicino, c’erano quelli favorevoli a restare qui e quelli che volevano andarsene. Per convincerci a partire, ci avevano promesso una casa tutta nuova e un lavoro”, racconta Angelina Corona, 86 anni.

Angelina ha rifiutato di lasciare la sua casa, ma non si pente di nulla. “Hanno spezzato le radici, intere famiglie sono scomparse. Molti se ne sono pentiti, alcuni si sono persino suicidati”.

Dei 2000 abitanti che vivevano a Erto nel 1963, oggi ne restano solo 300.

Due nuovi villaggi

Due nuovi villaggi, privi di fascino, sono stati costruiti: uno a 43 chilometri dal borgo e Nuova Erto, a 22 chilometri.

Adriano Filippin aveva 20 anni quando accettò di lasciare le sue montagne, e non se ne è mai ripreso: “Se fossimo rimasti tutti lassù al villaggio, sarebbe stato meglio, ma purtroppo siamo stati tutti divisi”.

Per il sindaco del villaggio, lo spostamento della popolazione fu un errore: “Non si deve mai abbandonare la propria terra, perché quando la abbandoni, perdi le tradizioni, gli usi, i costumi. Non puoi recuperarli e portarli altrove”, sottolinea Antonio Carrara.

Il trauma di questa ricollocazione forzata modificherà in seguito l’approccio delle autorità italiane nelle ricostruzioni successive alle catastrofi.

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La frana in Valtellina del 1987

Telegiornale 10.06.2025, 20:00

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