Basta un guasto ai semafori e le arterie stradali di Rio de Janeiro si raggrumano ancor di più. Traffico inchiodato, code di auto senza fine, accettate però dalla gente senza isterie o colpi di clacson. C’è chi ascolta la musica, chi si guarda attorno e chi, nelle macchine più ricche, ha un televisorino che propina un mix di calcio, telegiornali e telenovelas. D’altra parte, questa è una delle tante cerniere paradossali su cui scorre la vita del Brasile di oggi: il paese che più di tutti ha incentivato l’acquisto delle auto, al punto da raddoppiarne il numero nel giro di un decennio (da 40 a 80 milioni), è anche il paese che non è riuscito a fare nulla per adeguare strade e infrastrutture. Un gap che è al centro delle tante proteste dell’ultimo periodo, mescolato alle richieste di servizi pubblici migliori che spaziano dalla sanità all’educazione.
A conti fatti, tutte cose non toccate dagli investimenti del Mondiale: cascate di soldi sì, ma solo per la costruzione degli stadi, e per di più, col rischio - in più città - di creare “elefanti bianchi”, l’espressione usata in Brasile che ha un significato equivalente alle nostre “cattedrali nel deserto”. “È la Fifa che comanda e il Governo brasiliano che si è fatto comprare. E adesso Dilma Roussef e i suoi sono pieni di corruzione fino al collo”. A sostenerlo, è Romeo, l’autista ed ex-militare in pensione che con la sua Toyota Corolla cerca di bypassare il traffico per trasportarci fuori Rio, direzione Petropolis e poi Juiz de Fora. Lui che poco prima si era presentato, scherzando, come l’unico brasiliano per cui la palla è quadrata e per questo in passato ha potuto fare solo l’arbitro. Lui che, subito dopo, tenendo sempre le mani sul volante, ci chiede in rapida successione il pronostico su chi vincerà la Coppa del mondo, il nostro calciatore preferito, le città dove giocherà la Svizzera e le possibilità che i rossocrociati hanno di andare avanti nel torneo.
Tutto questo, mentre percorriamo una strada che, quando finalmente si lascia alle spalle la congestione d’auto, diventa singhiozzata dai lavori in corso che fanno capolino ai margini della carreggiata. Barriere arrugginite, segnaletiche un po’ ammaccate, un camion carico di detriti, qualche operaio. Sono lavori per i Mondiali? chiedo a Romeo. Lui mi guarda e ride. E basta. Come se la mia fosse solo una battuta e non avesse bisogno di risposta, perché ovvia. “No, no, i lavori qui ci sono da sempre” aggiunge poco dopo, vedendo la mia attesa, ma riportando anche subito il discorso verso una sponda calcistica. “Non è come per lo stadio del Corinthians di San Paolo. Quello è un regalo che Lula ha fatto alla squadra di cui è gran tifoso; il problema è che l’ha fatto con i nostri soldi”.
Ancora una volta, non sai se sia la critica politica a trovare nel “futebol” il suo detonatore più potente oppure viceversa. Di certo resta il fatto che, mondiali o non mondiali, in Brasile parlare di calcio è come parlare di dio o del tempo. Tra il sacro e il profano, c’è sempre un pallone che rimbalza. E i suoi palleggi finiscono per portarti lo specchio di un mondo più largo. Con tutte le sue contraddizioni e tutti i suoi problemi.
Lorenzo Buccella