Nel Mar Mediterraneo, lungo quella che l’ONU ha definito la “rotta migratoria più letale al mondo“, si continua a morire. Ma quella in mare è solo una delle tappe dell’odissea che sono costretti a vivere i migranti. “Ho attraversato i Paesi africani, il Mali e il Niger”. Inizia così, al microfono di SEIDISERA, il racconto di Ibrahima Lo, scrittore e attivista senegalese, la cui testimonianza, assieme ad altre, ha ispirato il film “Io Capitano” del regista Matteo Garrone. “Dal Niger - racconta il giovane - ho preso il percorso del deserto che è durato nove giorni. All’ottavo non avevamo più acqua per bere. Eravamo più di 45 persone e avevamo tanta sete. Rischiavamo di morire. A un certo punto qualcuno ha detto: ‘Ragazzi, non fate pipì perché altrimenti moriamo’”.
Chi ha visto il film se la ricorda la scena dell’attraversamento del deserto. Ibrahima Lo aveva 16 anni. Dopo essere partito da Mbacké, in Senegal, dove è nato, quando è giunto in Libia ha creduto che fosse il primo approdo sicuro. “Pensavamo fosse il paradiso. Invece, non appena arrivati siamo stati arrestati e portati subito nelle carceri. Ci hanno messi tutti insieme in una camera piccola con un muro sopra il quale c’erano dei vetri per impedirci di scappare. Lì hanno cominciato a chiedere i soldi e anche a trattarci male. Ci picchiavano tutti i giorni, ho delle ferite sul mio corpo. Non erano militari, non erano mafiosi, ma persone finte. Di giorno indossano la divisa della Guardia costiera libica e di notte vanno in mezzo al deserto a catturare le persone”.
Le carceri, di cui parla l’intervistato, erano quelle del famigerato Osama Almasri, l’ex capo della polizia giudiziaria di Tripoli ricercato dalla Corte penale internazionale e arrestato in Libia su ordine della magistratura locale con l’accusa di torture e omicidio. “Sono finito proprio nelle mani dei suoi colleghi. Lì sono rimasto un mese e venti giorni e ogni giorno mi chiedevano i soldi. Ci dicevano, se pagate uscite, se non pagate non uscite. A un certo punto ci hanno chiesto i numeri (dei nostri contatti, ndr). Chi aveva quello della mamma, chi del papà. Io avevo il numero del mio amico Muhammed. Lo hanno chiamato e lui ha dovuto mandare subito i soldi. È stato quello che mi ha salvato”. In quel carcere, continua Ibrahima Lo, “c’era anche gente che non aveva nessuno che poteva pagare per loro. A un certo momento i libici sono entrati e hanno iniziato a picchiare. È stata la prima volta che ho visto così tanto sangue davanti agli occhi”.
Dopo la detenzione in Libia è arrivato il viaggio in mare. “Siamo riusciti a salire su un barcone. Eravamo più di 120 persone, uomini, donne e bambini. Ero più piccolo, perché avevo 16 anni, e a un certo punto la barca ha iniziato a prendere acqua. Avevamo paura. Io stavo male perché l’acqua salata, insieme alla benzina, mi bruciava sulle ferite che non erano ancora guarite. In carcere mi avevano picchiato con un Kalashnikov”.
Oggi Ibrahima Lo ha 26 anni e vive a Venezia. Ha conseguito la maturità e vorrebbe continuare a studiare per diventare scrittore e giornalista. “Arrivato in Italia non è stato facile. Perché quando arrivi trovi un piatto vuoto. Devi fare tanti sacrifici per portare avanti i tuoi sogni”.






