Martedì prenderà il via a New York l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove la Svizzera sarà rappresentata dalla presidente della Confederazione Karin Keller-Sutter e dal capo del Dipartimento degli Affari Esteri, Ignazio Cassis.
L’evento si svolge sullo sfondo dell’offensiva israeliana a Gaza e della grave crisi umanitaria che coinvolge la popolazione palestinese, e vedrà anche il ritorno di Donald Trump al Palazzo di Vetro.
Per approfondire la posizione di Trump riguardo al conflitto a Gaza, Andrea Vosti, corrispondente RSI negli Stati Uniti, ha intervistato per SEIDISERA Brian Katulis, esperto del Middle East Institute di Washington.
Brian Katulis, una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite accusa Israele di compiere un genocidio a Gaza nei confronti della popolazione palestinese. Lei è d’accordo?
Si tratta di un’accusa che ho sentito ripetere più volte nel corso dell’ultimo anno, ma personalmente non so con certezza se ciò che sta accadendo possa essere davvero considerato un genocidio. Di certo sono stati commessi crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ma in fin dei conti la definizione di quanto accade penso sia irrilevante, perché la reazione di Israele a questo rapporto e le sue azioni sul campo a Gaza indicano chiaramente che Netanyahu non ascolta nessuna di queste accuse. Israele sta procedendo con un’operazione militare che fa moltissime vittime e sembra che siamo a un passo da uno scenario ancora più catastrofico.
Brian Katulis, come giudica la posizione di Donald Trump rispetto alla tragedia umanitaria nella Striscia di Gaza. Davvero Trump non può fermare Israele?
L’impressione è che Trump non abbia alcun interesse a farlo. Negli otto mesi circa da quando è tornato in carica, Trump si è di fatto lasciato guidare da Benjamin Netanyahu. Se mettiamo da parte una certa retorica bellicosa e le dichiarazioni provocatorie, come quella di fare di Gaza la Riviera del Medio Oriente, il presidente statunitense è stato fin qui molto passivo. Trump ha firmato un assegno in bianco che permette a Israele di fare quello che vuole in questa sua guerra contro Hamas. Una libertà d’azione ancora più grande di quanta ne aveva con Biden alla Casa Bianca.
Durante il suo primo mandato Trump aveva contribuito alla storica firma degli Accordi di Abramo tra Israele e alcuni Stati arabi. Come valuta la strategia verso il Medio Oriente in questi primi mesi del Trump-bis?
Credo che Trump abbia mostrato di avere due obiettivi: il primo è quello di offrire a Israele un sostegno incondizionato: ciò che Israele chiede, lo ottiene. La seconda componente - che abbiamo visto all’opera nella sua recente visita in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti - e che Trump cerca non solo di concludere accordi economici per gli Stati Uniti, ma prima di tutto di fare affari vantaggiosi per la sua famiglia, traendo beneficio finanziario da molte di queste relazioni. Riassumendo, mi pare che i due pilastri principali della strategia di Trump verso il Medio Oriente siano dare carta bianca a Israele a Gaza, e poi arricchirsi, un po’ come ha fatto suo genero Jared Kushner. Se penso che Trump abbia una visione geostrategica più articolata? Assolutamente no…
Brian Katulis, la soluzione dei due Stati è stata la dottrina per molte amministrazioni americane che si sono succedute. Possiamo dire che ora con Trump quello dei due Stati è niente più che un miraggio?
In effetti, oggi nel 2025 appare molto difficile ipotizzare uno scenario con uno stato palestinese a pieno titolo, uno Stato con un proprio esercito e il controllo dei propri confini. Sembra davvero impossibile. L’altro elemento significativo è che malgrado la distruzione a Gaza le aspirazioni della popolazione palestinese non sono cambiate. Il grande ostacolo in tutto questo è per me l’assenza di una vera leadership. Non mi riferisco alla leadership di chi lancia provocazioni sui social media, come fa Trump, oppure di chi porta avanti politiche divisive per restare aggrappato al potere, come fa Netanyahu. Ecco, è questo vuoto di leadership il grande ostacolo verso la pace. Lo dico poiché la maggioranza degli israeliani e dei palestinesi per bene capisce che dovrà comunque trovare il modo di convivere.
Nei prossimi giorni all’ONU a New York si discuterà del riconoscimento dello Stato palestinese da parte di alcuni alleati di Washington: in prima fila ci sono alcuni paesi europei e l’Arabia Saudita. Qual è il significato di questo passo, anche se solo sulla carta?
Sì, in effetti si tratta più che altro di un riconoscimento simbolico, ma comunque capace di mostrare l’isolamento di Israele, del suo attuale governo, e degli Stati Uniti sulla scena internazionale. In secondo luogo, questo riconoscimento esporrà anche il divario tra il simbolismo dell’aspirazione allo stato palestinese e la cruda realtà di ciò che sta accadendo sul terreno, non soltanto a Gaza bensì anche in Cisgiordania. Ciò che verrà scritto e detto nei discorsi all’Assemblea dell’ONU sarà lontano anni luce dalla realtà della situazione. Pertanto, il simbolismo è importante, ma mostrerà anche l’impotenza dell’Assemblea generale dell’ONU e l’inutilità di dichiarazioni d’intenti e discorsi nel rispetto alla drammatica situazione sul terreno.