Quando Jihad dice che hanno alzato bandiera bianca non sta usando una metafora. Dal campo profughi di Jenin, la sua e altre famiglie se ne sono andate proprio così, con federe o stracci legati a un bastone di legno. In pochi minuti. Con poche cose. “Siamo rimasti tappati in casa per dieci giorni, poi sono iniziati i rastrellamenti casa per casa e le evacuazioni da parte dell’esercito israeliano. Avevamo paura che ci sparassero addosso”.
La sua non era una resa delle armi. Jihad non è un combattente, ma un giovane padre di famiglia che colpisce per la durezza e la stanchezza scolpite in volto. Non la prende male quando se lo sente dire. “Sono esausto, sì. È tutto troppo. Perdi i luoghi e le persone delle tue memorie. Perdi la casa che ci hai messo anni a costruire. Perdi i tuoi vicini e i tuoi amici, ma sai che quei giorni non li scorderai mai, che quei momenti torneranno sempre”.

La nostra inviata con due operatori a Jenin
Basta il suono di una sirena, racconta il giovane. Basta lo sparo in un film o un incubo nella notte ed è come essere ancora lì, in una zona della città che ora è deserta e presidiata dai cecchini israeliani. Ma Jenin, negli ultimi mesi, ha vissuto anche un conflitto interno. A inizio dicembre, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha lanciato un’operazione durata quasi due mesi per epurare la città dai membri della resistenza. Al campo profughi, c’è stato un primo assedio e poi ne è arrivato un altro, quello israeliano che a fine gennaio ha lanciato l’operazione Muro di ferro.

Una strada di Jenin
Per molti, a Jenin, è tutta un’esagerazione. I media arabi, in passato, avrebbero celebrato alcuni personaggi come eroi della resistenza mettendo in pericolo tutta la popolazione. Nessuno ammette che ci siano brigate armate. Nessuno trova giustificazioni a quanto fatto dall’ANP prima e da Israele subito dopo.
Anche Samara si porta appresso il trauma di quei giorni. Ha due figli, di cui uno piccolo, e un marito disabile che non può lavorare. “Ricordo gli elicotteri, i missili e i soldati che ci danno 10 minuti per levare le tende. Sono preoccupata. Non sappiamo per quanto tempo ancora riusciremo a stare qui. Non sappiamo se potremo tornare”. Il suo bambino da solo non va neanche più in bagno, racconta la donna. Mentre lasciavano il campo, un proiettile ha attraversato il finestrino della loro auto.

Un operatore di Omniah con alcuni sfollati
A dargli una mano, c’è Omniah Youth Centre, un’associazione che fa tante cose, ma la cui priorità, al momento, è occuparsi degli sfollati, molti dei quali sono stati collocati al campus dell’Università araba americana, che ora è chiusa. “L’operazione di Israele a Jenin e a Tulkarem ha lasciato senza una casa circa 40’000 persone. Noi ce ne siamo prese a carico 2’500”, spiega il direttore Mohammad Hammad, convinto che l’esercito israeliano tornerà per finire il lavoro, per evacuare e distruggere l’intera città. “Ci sono altre zone distrutte in città, non solo il campo profughi. Alcune strade le possiamo ricostruire. Israele ha dato il permesso, ma è solo affinché ci possano passare i carri armati”.

Il direttore Mohammad Hammad
E così, si attende la fine, senza alcuna fiducia, almeno fra queste persone, che le condanne internazionali per quanto succede a Gaza possano cambiare le cose.