Reportage

Città del Messico in piena crisi migratoria

Bloccate nella capitale migliaia di persone che non possono raggiungere gli Stati Uniti

  • Ieri, 06:39
  • Ieri, 10:45
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Un migrante venezuelano nelle baracche fuori Città del Messico

  • REUTERS
Di: Laura Daverio , da Città del Messico

L’accampamento di Vallejos, a nord di Città del Messico, esiste da quasi tre anni. È una distesa di baracche con pareti sottili di legno e teloni che non proteggono dalla pioggia. Dentro, è chiaro che chi ci vive lo fa da tempo: impianti elettrici improvvisati, letti, divisori, cucine, scaffali. Le baracche sorgono tra un muro e i binari di treni merci ancora attivi. Le condizioni igieniche sono critiche, non ci sono bagni né acqua corrente. Bambini scalzi giocano sui binari, mentre cani randagi cercano cibo. Un tempo vivevano qui in mille, oggi sono circa 300, in maggioranza venezuelani. Alcune porte espongono avvisi legali: gli abitanti hanno fatto ricorso contro lo sgombero. È l’unico accampamento ancora in piedi nella capitale. Durante la pandemia, il governo cittadino ha tollerato questi insediamenti, in un paese dove l’assistenza ai migranti è lasciata quasi interamente alla società civile. Ma dallo scorso anno, di fronte all’irrigidimento di politiche migratorie dell’amministrazione Biden e in previsione di possibili espulsioni di massa di Trump, la città ha cambiato rotta: sta recuperando edifici pubblici trasformandoli in rifugi e avviato trattative con i migranti per farli trasferire, fino a imporre sgomberi anche forzati.

È quasi impossibile sapere quanti migranti vivono oggi a Città del Messico. I rifugi ospitano solo una minima parte. Molti lavorano in nero, affittano stanze, evitano le autorità per paura di essere espulsi. Migliaia hanno vissuto in baraccopoli poi smantellate, ma pochi accettano il trasferimento nei centri ufficiali, restando all’ombra. Questa precarietà ha alimentato un’economia informale dominata dalla criminalità. Spaccio e altre attività illegali si intrecciano con il business delle baraccopoli, rendendo più difficile il loro smantellamento.

Il 20 gennaio, giorno dell’insediamento di Trump per il suo secondo mandato, è stata disattivata l’app CBP One, che consentiva ai migranti di fissare legalmente un appuntamento per richiedere asilo negli Stati Uniti. Sebbene i tempi di attesa fossero lunghi, anche mesi, l’app rappresentava un’alternativa legale e sicura rispetto al rivolgersi al crimine organizzato per attraversare illegalmente la frontiera. La sua sospensione ha generato una situazione di stallo. Con la frontiera chiusa, le opzioni per i migranti si sono ridotte a tre: tornare al proprio paese, chiedere asilo in Messico o rimanere in attesa di un cambiamento. Tuttavia, tentare oggi di entrare negli USA significa rischiare l’arresto o l’espulsione immediata.
Le promesse elettorali di Trump, come un milione di espulsioni nel primo anno, sono ben lontane dalla realtà: a fine settembre le espulsioni effettive sono state circa 170.000. Non è chiaro quanti migranti siano stati respinti verso il Messico, che accoglie anche persone provenienti da altri paesi. La gestione migratoria è complessa: molti venezuelani in fuga dalla persecuzione temono persino il contatto con la propria ambasciata per organizzare un rientro. Intanto, il sistema messicano per le richieste d’asilo è sovraccarico e indebolito da anni di tagli dei fondi pubblici. Le pratiche possono richiedere anni, ma nonostante tutto si stimano circa 250 nuove domande di asilo al giorno, collocando il Messico tra i dieci paesi con più richieste al mondo.
A conferma del cambiamento nei flussi migratori, il primo ottobre è partita una nuova carovana di migranti dal confine sud del Messico. Diversamente dalle precedenti, dirette verso gli Stati Uniti, questo gruppo mira a fare pressione sul governo messicano per velocizzare le procedure di asilo e ottenere il permesso di lasciare zone come Tapachula, dove le condizioni di vita sono difficili e le opportunità di lavoro quasi inesistenti.
Se i profondi cambiamenti nella condizione migratoria richiedono una presenza più incisiva delle autorità municipali e statali, è anche vero che la gestione di questi processi non si avviene in fretta. Il Centro Vasco de Quiroga, inaugurato a maggio in un’ex scuola di 2.800 metri quadrati, può ospitare fino a 500 migranti: un numero complesso da gestire, vista la diversità di nazionalità, bisogni e traumi personali. Il nuovo centro dispone di dormitori e cucina, oltre a un’area sportiva, negozi, servizi medici e igienici. Eppure, pochi giorni dopo lo sgombero forzato della baraccopoli nota come Guadalupe Victoria, solo 26 dei 150 migranti coinvolti hanno accettato di trasferirsi nella nuova struttura. Normalmente sono quelli che hanno già deciso di rientrare nel loro paese. È lo stesso centro verso cui si cerca di spostare anche gli abitanti della baraccopoli di Vallejos, che hanno fatto ricorso opponendosi a questo piano. 

Per i migranti non è semplice fidarsi delle autorità, né dei rifugi in generale. Sin dal loro ingresso nel paese, sono spesso vittime di estorsioni. Inoltre, queste strutture impongono regole sugli orari e sul comportamento che non tutti sono disposti ad accettare. Molti preferiscono la libertà, pur più precaria, di affittare una stanza con il ricavato di un lavoro informale, nell’attesa di opportunità migliori.

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Prima Ora 15.10.2025, 18:00

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