Cina e Stati Uniti si concedono più tempo per raggiungere un accordo commerciale, ma ora a Pechino sono convinti di aver conquistato una posizione di forza. La proroga della tregua annunciata lunedì in extremis da Donald Trump era ampiamente attesa, anzi era stata in realtà già concordata durante i colloqui di fine luglio a Stoccolma. Tanto che i negoziatori cinesi, guidati dal vicepremier e zar delle politiche economiche He Lifeng, l’avevano già data per fatta. Il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Scott Bessent, aveva invece rinviato tutto alla necessaria conferma della Casa Bianca. Il desiderio di Trump di annunciare lui stesso la proroga è visto da Pechino come un segnale di debolezza, non di forza come il presidente statunitense cerca invece di comunicare a chi ha criticato la posizione sin qui morbida sul grande rivale. Nei giorni scorsi, le borse cinesi sono state positive, segnalando grande tranquillità in attesa della scadenza della tregua, che senza una proroga avrebbe rischiato di riportare al 145% i dazi sui prodotti cinesi. Un sostanziale embargo. Si resta invece all’attuale 30%, nonostante gli elogi di Trump ai presunti maggiori sforzi di Pechino nel contrastare il flusso di materiali utili alla produzione del fentanyl, l’oppioide killer alla base dei primi due round di tasse aggiuntive del 20% imposti da Washington tra febbraio e marzo.
Con la conferma della proroga, la Cina si sente per ora in una posizione di forza. Questo per vari motivi. Primo: è l’unico Paese ad aver effettivamente ottenuto un secondo rinvio dell’entrata in vigore dei dazi minacciati da Trump. Secondo: ha raggiunto questo risultato non attraverso concessioni, ma rispondendo colpo su colpo all’innalzamento delle tasse doganali con una serie di ritorsioni multiformi, annunciando una “prova di resistenza” contro il cosiddetto “bullismo protezionista americano”. Un modo per comunicare di essere pronti a combattere, con tanto di riutilizzo di antichi slogan maoisti. Terzo: Pechino è convinta di aver trovato un’arma negoziale formidabile nelle terre rare. Aver accelerato le spedizioni dei materiali cruciali per elettronica, tecnologia verde e difesa ha portato a una serie di concessioni di Washington sui software tecnologici e sui chip, con la rimozione del divieto di vendita dei modelli per l’intelligenza artificiale di Nvidia e AMD. E, non a caso, ora alza il tiro chiedendo ulteriori concessioni sui semiconduttori. I negoziati hanno portato alla luce l’attuale asimmetria dell’interdipendenza tra le due potenze. Nel breve termine, appare più semplice per la Cina aggirare le restrizioni tecnologiche, di quanto non lo sia per gli Stati Uniti diversificare il proprio approvvigionamento di terre rare.
Forse anche per questo Trump si è mostrato malleabile persino su temi strategici, visto che ha negato il transito a New York al presidente di Taiwan, un dossier sin qui mai ritenuto negoziabile. Il tutto mentre Xi Jinping non è mai entrato davvero in gioco. Ha fatto aspettare Trump oltre quattro mesi dal suo secondo insediamento prima di concedergli un colloquio telefonico, avvenuto a inizio giugno e solamente dopo il primo accordo sulla tregua raggiunto a Ginevra. Il presidente cinese ha chiesto e ottenuto che i negoziati si svolgessero attraverso meccanismi di consultazioni precisi, senza il coinvolgimento diretto dei leader. Nel frattempo, Xi prova a rafforzare i rapporti con le economie emergenti spingendo sulla “cooperazione contro il protezionismo”. Giocando sull’instabilità commerciale e strategica causata a suo dire da Trump, Pechino sta cercando il disgelo anche con rivali regionali come l’India, punita severamente dai dazi della Casa Bianca. Il premier Narendra Modi dovrebbe presentarsi in Cina a fine agosto, per il summit dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), a cui sarà presente tra gli altri anche Vladimir Putin. Sarebbe il primo, significativo, viaggio in terra cinese per il premier indiano dopo sette turbolenti anni fatti anche di scontri armati al confine conteso.
I dati sul commercio mostrano peraltro un continuo aumento delle esportazioni cinesi e la crescita del prodotto interno lordo del primo semestre si è mantenuta sopra il 5%, obiettivo fissato dal governo. Diversi analisti avvisano però che si tratta di una distorsione temporanea, causata dell’accelerazione degli scambi durante la tregua sui dazi e dalle triangolazioni commerciali delle merci cinesi nei Paesi del Sud-Est asiatico, che potrebbero subire presto tasse aggiuntive. Per esempio nello snodo cruciale del Vietnam, qualora la Casa Bianca optasse per un’applicazione estensiva del controverso accordo che prevede vari balzelli sui prodotti con componenti originari di Paesi terzi.
Peraltro, la Cina sta faticando a rilanciare davvero i consumi interni, obiettivo prioritario per ridurre la dipendenza dalle esportazioni. Insomma, un accordo di qualche tipo con Washington servirebbe anche a Pechino. Ma per fare passi avanti concreti serve entrare nel merito di questioni divisive come la sovrapproduzione cinese e lo squilibrio commerciale. Trump ha chiesto nei giorni scorsi di quadruplicare gli acquisti di soia per ridurre il disavanzo che Pechino continua a conservare nell’interscambio. A Pechino vogliono però garanzie precise sulla rimozione di una serie di divieti sulle catene di approvvigionamento tecnologiche e non prendono in considerazione l’ipotesi di sanzioni secondarie per l’acquisto di petrolio russo e iraniano.
Il probabile vertice tra Xi e Trump sarà probabilmente uno spartiacque decisivo. Già dalla sua collocazione geografica. Optando per un incontro a margine della riunione annuale dell’APEC (Cooperazione Economica Asia-Pacifico), che per il 2025 si svolge il 31 ottobre e 1° novembre in Corea del Sud, si comunicherebbero con ogni probabilità minori ambizioni. Se invece il palcoscenico fosse Pechino, le possibilità di un accordo aumenterebbero. Senza una vera intesa, la Casa Bianca potrebbe tornare a una postura più aggressiva, come già accaduto nel 2018.
Insomma, passare dall’armistizio a una vera pace sarà tutt’altro che semplice.