ANALISI

Netanyahu verso la fine politica

Vari fattori sanciranno, una volta terminato il conflitto a Gaza, l’uscita di scena per il premier israeliano - Le considerazioni di un esperto

  • 10 aprile, 05:49
  • 10 aprile, 07:30
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Difficoltà crescenti da gestire, sul piano interno e internazionale, per il capo del Governo israeliano

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Di: Alex Ricordi

Su Gaza continua a imperversare l’offensiva israeliana. Ma sotto assedio, sul piano politico, è anche lo stesso uomo che l’ha lanciata. Benjamin Netanyahu si trova ormai stretto fra due fuochi: da un lato pressioni internazionali sempre più intense, dall’altro una protesta di massa che nel suo Paese non accenna a placarsi. Tutto ciò non può che alimentare interrogativi sulla stabilità dell’Esecutivo e sullo stesso futuro politico del premier. Gli sviluppi degli ultimi giorni sono in questo senso piuttosto indicativi. Benny Gantz, il leader centrista che occupa una posizione chiave nel gabinetto di guerra israeliano, ha esplicitamente chiesto elezioni anticipate per settembre. L’ultimo colloquio telefonico fra Netanyahu e Joe Biden ha quindi palesato, sullo sfondo dell’emergenza umanitaria a Gaza, come il sostegno di Washington a Israele sia ormai tutt’altro che incondizionato. E a evidenziare questo dato, in modo assai eloquente, è stata anche l’astensione degli Stati Uniti nel voto con cui il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha approvato una risoluzione per una tregua durevole e sostenibile.

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Un momento della manifestazione contro Netanyahu svoltasi sabato scorso a Tel Aviv

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Da questi sviluppi potrebbe ora prendere le mosse lo scenario di un nuovo cessate il fuoco nella Striscia. Ma che dire, intanto, sulle prospettive politiche per Netanyahu? Come può restare in sella nonostante condizioni sempre più avverse sia a livello interno, che sul piano internazionale? “L’attuale forza di Netanyahu” è sempre data “dall’emergenza della situazione”, osserva Giuseppe Dentice, analista per il Medio Oriente del Centro Studi Internazionali (CeSI) di Roma. Ma è chiaro che gli sviluppi delle ultime settimane “stanno ponendo in essere diversi dubbi sulla capacità stessa di tenuta” del suo Esecutivo. Sul premier gravano sempre accuse pesantissime: segnatamente quelle di essersi fatto cogliere di sorpresa dall’attacco contro Israele e di non adoperarsi a sufficienza per il rilascio degli ostaggi in mano ad Hamas. La sua permanenza al potere è stata finora dettata da ragioni di opportunità che adesso, però, vengono meno. E a fare la differenza, rispetto a mesi fa, sono in particolare due fattori: “i dissidi” emersi “all’interno della maggioranza” di governo e, più ancora, una questione finora non molto nota all’estero ma che in Israele rappresenta “un tema di fortissimo dibattito”.

Ultraortodossi e coscrizione militare

Dentice fa riferimento all’esenzione degli ebrei ultraortodossi dal servizio militare, che in Israele rappresenta un obbligo generalizzato. Questa eccezione corrisponde a una prassi che, pur non essendo contemplata da una legge dello Stato, è stata finora sempre rinnovata. Ora però la Corte suprema israeliana, contraria all’esenzione in nome dell’eguaglianza dei doveri per i cittadini, ha imposto all’Esecutivo di elaborare un progetto di legge per regolare una volta per tutte la questione. Ma il dossier è spinoso: divide da tempo la società israeliana e minaccia ora di destabilizzare l’Esecutivo, visto il peso che nel medesimo hanno proprio i partiti religiosi.

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L'esenzione degli ebrei ultraortodossi dal servizio militare è al centro di un intenso dibattito in Israele

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Per anni questo tema “è stato un grande paravento per Netanyahu”, perché ha consentito “ai suoi alleati ultraortodossi di garantirsi quella parte di elettorato favorevole”. Ora però si tratta di rimuovere ciò che per la Corte è anticostituzionale e che da più parti, con un grave conflitto tuttora in atto, viene qualificato come un privilegio inammissibile. Per parte sua Netanyahu cerca di guadagnare tempo e ha così chiesto di poter disporre di 30 giorni per conformarsi alla prescrizione della Corte suprema. Ora, “non sappiamo se la Corte accetterà questa dilazione, ma se così non fosse” per l’Esecutivo potrebbe davvero aprirsi la crisi. “O il Governo trova una soluzione concreta, o è presumibile pensare che si possa dividere”, sottolinea l’esperto.

Una strategia per mantenersi al potere

Anche su questo versante, insomma, Netanyahu si trova ora fra l’incudine e il martello. Il premier, certo, ha più volte dimostrato di essere “uno straordinario animale politico, in grado di sopravvivere a mille tempeste”. Ma il punto è che le attuali circostanze sono molto diverse da quelle di un passato “che giocava a suo favore”: ora “è completamente cambiato il Paese e la guerra sta contribuendo a cambiarlo ulteriormente”. L’impressione, intanto, è che la sopravvivenza politica del premier sia ormai compromessa dai troppi fronti aperti. Dentice ritiene allora che Netanyahu potrebbe ritrovarsi politicamente ‘morto’, una volta terminato il conflitto? “Personalmente sì”, ci risponde l’analista del CeSI, rilevando che “la guerra e la sua non assunzione delle responsabilità lo ha inviso a buona parte della popolazione israeliana”: la stessa che lo ha di fatto identificato come “il principale responsabile della situazione che ha portato al 7 ottobre”. Da una prospettiva morale Netanyahu appare quindi già screditato. Ma soprattutto sul piano politico i nodi verranno al pettine. Israele infatti, con ogni probabilità, istituirà alla fine del conflitto “una commissione d’inchiesta sulla falsariga” di quella creata dopo la guerra del Kippur, nel 1973: fu l’evento, va ricordato, al quale politicamente non sopravvisse una statista storica come Golda Meir. “Non credo quindi”, conclude Dentice, “che Netanyahu possa avere un futuro diverso”.

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Nell'attacco, attribuito a Israele, al consolato iraniano a Damasco ha perso la vita anche un importante comandante dei Pasdaran

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Per il premier è quindi essenziale “che l’emergenza continui il più a lungo possibile” in modo che possa restare al potere quanto gli basta in funzione di due obiettivi. Da un lato, cercare di risolvere i “suoi problemi personali” a livello giudiziario “visti i casi di corruzione per i quali è imputato”. Dall’altro, cercare di ottenere una “vittoria politica” che gli possa assicurare “una sorta di giudizio morale meno pesante di quello che verosimilmente subirà a guerra conclusa”. Intanto quella che doveva essere una guerra rivolta contro Hamas si è da tempo estesa a ulteriori obiettivi: si pensi all’offensiva contro i miliziani di Hezbollah in Libano e al recente attacco, attribuito a Israele, contro il complesso consolare dell’Iran a Damasco. Ma proprio questo allargamento del fronte è di fatto “speculare alla strategia di Netanyahu”: coincide insomma con l’obiettivo di “deviare le attenzioni nel tentativo di rimanere lì dov’è”, in modo da ottenere qualcosa che “lo possa ripresentare o presentare agli occhi dell’opinione pubblica come meno colpevole di quanto sia stato”.

Le sfide per un vero cambio di passo

Al netto di quelli che saranno gli sviluppi di questa strategia, si può già in qualche modo pensare ad un ‘dopo Netanyahu’ ? La società israeliana, come abbiamo visto, si è da tempo trasformata e da essa emergono molte istanze per un vero cambiamento. È pur vero, però, che la scena politica del Paese è sempre frammentata e complessa. Che dire allora? “Ad oggi una vera alternativa a Netanyahu non esiste”, osserva Dentice. Non mancano certo personalità che ambiscono alla leadership del Paese, come nel caso di Benny Gantz o del già primo ministro Yair Lapid. Ma a ben vedere le loro posizioni in politica interna ed estera non sono poi “tanto distanti rispetto a quelle di Netanyahu”. La vera sfida è quindi ben più complessa e risiede nell’esigenza di “trovare una serie di alternative anche nella retorica interna politica” di Israele, nel tentativo di “promuovere un vero e proprio cambio di passo” dopo le politiche perseguite negli ultimi 20-30 anni.

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Benny Gantz, leader del centro, ha proprio di recente chiesto il ricorso a nuove elezioni

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Netanyahu è “frutto di quella stessa stagione politica” e sostituirlo con leader “che non si discostino più di quel tanto dalle sue posizioni” non favorirebbe di certo questa prospettiva. Del resto “non è che i problemi non esistessero” prima di Netanyahu: la questione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ad esempio, si trascina ormai da decenni e vede ancora oggi le stesse opposizioni “muoversi su delle linee non tanto distanti” da quelle dell’attuale premier. Anche questo dato contribuisce a mostrare quanto il contesto politico-sociale di Israele sia “estremamente contorto” ed “emblema di quelle che sono le pulsioni in una società estremamente diversificata al suo interno”. L’uscita di scena di Netanyahu, da sola, non sarà quindi sufficiente per un reale cambio di passo. Sarà senz’altro un elemento di novità ma ad esso serviranno anche “politiche e approcci” volti a “cambiare contenutisticamente la strada”. Altrimenti, si rischierà di ritrovarsi allo stesso punto di partenza.

Due Stati: una soluzione che ha fatto il suo tempo

Un rinnovato approccio si imporrà quindi per la questione palestinese nella sua globalità. “Penso che in questo momento nessuno voglia parlare di soluzione a due Stati. E questo vale tanto per gli israeliani, quanto per i palestinesi”, afferma in proposito Dentice, precisando che ciò “non è solo un effetto della guerra” in atto. Questa soluzione è di fatto “morta da oltre un decennio, e a questo hanno contribuito tutti gli attori” in campo. Oggi, insomma, occorre ragionare su qualcosa di diverso. “Non è detto che sia” una soluzione nel segno del “federalismo o di uno Stato con altre formule di collaborazione”. Ma in ogni caso occorre capire “quali sono gli elementi comuni che possano permettere alle due parti di convivere e lavorare insieme”.

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Ripartire da nuove basi

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Bisogna quindi, a detta dell’esperto, essere “molto concreti e pragmatici” e riconoscere che la soluzione a due Stati “non è più perseguibile, al di là “di quelle che sono le retoriche ufficiali dei governi occidentali”. Il vero intento della comunità occidentale deve invece essere quello di “creare delle condizioni per riportare le parti ad un dialogo”, per riportarle “a lavorare su dei terreni comuni” e favorire quindi “una sorta di road map nella quale inserire un processo di pace”. Nella consapevolezza che si tratterà di “processi di lungo periodo” e che, di certo, “non esistono scadenze per questo tipo di attività”.

USA-Israele: ombre su un rapporto privilegiato

Non pochi interrogativi, infine, vertono sui rapporti fra Israele e gli Stati Uniti, i suoi storici alleati. Quale sarà il futuro di questa intesa, dopo la linea più intransigente che ha ormai adottato l’Amministrazione Biden? “Gli Stati Uniti manterranno sempre un filo diretto con Israele”, afferma Dentice, osservando però che “i segnali che sono stati lanciati” da Washington “sono inequivocabili”. Significano, in buona sostanza, che “tutto quello che è accaduto oggi non è più tollerato come in passato”. Un segnale come il mancato veto alla recente risoluzione su Gaza, se Netanyahu non dovesse darsene per inteso, potrebbe quindi preludere a ben altro. E una eventuale negazione di aiuti militari sancirebbe davvero “un punto di non ritorno” a livello bilaterale.

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Joe Biden ha ormai lanciato precisi segnali all'attenzione di Netanyahu

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“Sfido a trovare”, sottolinea l’esperto, qualche altro soggetto internazionale “in grado di provvedere alla sicurezza di Israele, così come gli Stati Uniti hanno provveduto per oltre 70 anni”. E ciò non concerne solo gli armamenti, ma più in generale “un discorso strutturale: di una relazione e di un’identità profonda che lega entrambe le parti”. Per lo Stato ebraico, quindi, arrivare ad un punto del genere equivarrebbe ad “una disfatta totale; peggio di una guerra perduta”. In gioco, infatti, non ci sarebbe “solo la questione legata alla sicurezza di Israele in guerra, ma la sicurezza di Israele nel futuro”. E un simile sviluppo “vedrebbe Israele sconfitto su tutta la linea”, conclude lo studioso del CeSI.

Israele, Netanyahu sotto pressione

Telegiornale 04.04.2024, 12:30

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