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Quella frase che ha riacceso la tensione tra Cina e Giappone

Il malcontento di Pechino per le posizioni della nuova leader nipponica e il pericolo di una grande crisi come nel 2012

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La premier giapponese Sanae Takaichi (a sinistra) e il presidente cinese Xi Jinping in un incontro alla fine di ottobre
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Notiziario 17.11.2025, 10:00

  • Immagine d'archivio Reuters
Di: Lorenzo Lamperti, collaboratore RSI da Taiwan

La crisi diplomatica che da alcuni giorni ha travolto i rapporti tra Cina e Giappone è la più grave degli ultimi anni e affonda le sue radici non soltanto nella (geo)politica attuale, ma in una memoria storica lunga più di un secolo. A far esplodere la tensione è stata una frase pronunciata dalla premier giapponese Sanae Takaichi durante un’interrogazione parlamentare: un eventuale attacco cinese contro Taiwan, ha affermato, costituirebbe “una minaccia esistenziale per il Giappone” e potrebbe dunque giustificare l’intervento delle Forze di autodifesa nipponiche.

La Cina considera Taiwan una questione interna e anche nelle scorse settimane ha ribadito che non rinuncerà all’uso della forza per raggiungere quella che definisce “riunificazione”. Il Giappone, ex colonizzatore dell’isola, non aveva sin qui mai chiarito in modo così esplicito un suo potenziale coinvolgimento diretto. Nel 2021, Shinzo Abe aveva dichiarato che il Giappone e gli Stati Uniti “non potrebbero stare a guardare” in caso di attacco contro Taiwan, ma allora l’ex premier aveva già lasciato il suo posto alla guida del governo e stava parlando durante un forum organizzato da un think tank taiwanese. Contesto ben diverso e più informale rispetto a quello di Takaichi, che ha pronunciato le sue parole durante il primo confronto aperto alla Dieta dopo la sua nomina a premier, avvenuta meno di un mese fa.

La reazione cinese

La reazione cinese è stata immediata e feroce. Il ministero degli Esteri ha convocato l’ambasciatore giapponese, accusando Takaichi di interferenza negli affari interni della Repubblica Popolare. I media di Stato hanno parlato di “provocazione deliberata”, di “arroganza militarista” e di un pericoloso tentativo di riportare il Giappone sulla via del passato imperialista. Il console cinese a Osaka, Xue Jian, ha scritto in un post (poi rimosso) su X che al Giappone andrebbe “tagliato il collo” se dovesse immischiarsi nella questione taiwanese.

In realtà, la Cina stava aspettando Takaichi al varco. Nonostante l’incontro tra la premier giapponese e il presidente cinese Xi Jinping, avvenuto a fine ottobre a margine del summit APEC in Corea del Sud, Pechino non ha fatto nulla per nascondere il suo malcontento per le posizioni della nuova leader nipponica. Takaichi è peraltro la leader della fazione ultra nazionalista del Partito liberaldemocratico e ha una posizione revisionista sulla storia dell’imperialismo giapponese. Takaichi ha più volte visitato il santuario di Yasukuni, dove sono commemorati anche criminali di guerra di classe A. Non a caso, in questi giorni i media cinesi hanno diffuso un vecchio video degli anni Novanta in cui Takaichi criticava l’allora premier Tomiichi Murayama per la sua “diplomazia delle scuse” sull’era coloniale. Poco prima di essere nominata, Takaichi è peraltro stata in viaggio a Taiwan, dove ha proposto una “quasi-alleanza di sicurezza” e ha incontrato il presidente Lai Ching-te, considerato un “secessionista radicale” da Pechino. Insomma, il problema non è solo quanto è stato detto, ma anche chi lo ha detto.

La Cina ai suoi cittadini: “Non recatevi in Giappone”

La crisi si è presto spostata anche sul piano economico e sociale. Pechino ha sconsigliato ai propri cittadini di recarsi in Giappone e, in seguito, ha anche invitato gli studenti cinesi a “valutare attentamente i rischi” prima di trasferirsi o restare nel Paese vicino. Le grandi compagnie aeree cinesi hanno iniziato a offrire rimborsi totali per i voli verso il Giappone, mettendo in difficoltà il settore turistico nipponico, storicamente dipendente dalla vasta platea di visitatori cinesi. Attenzione anche a possibili ritorsioni commerciali, come il blocco dell’export di terre rare.

Le tensioni stanno aumentando anche sul fronte della sicurezza. In questi giorni la guardia costiera cinese ha svolto “pattuglie” nelle acque contese delle isole Senkaku, amministrate da Tokyo ma rivendicate da Pechino col nome di Diaoyu. L’Esercito popolare di liberazione ha sorvolato con un drone lo spazio tra Taiwan e Yonaguni, ad appena 110 chilometri di distanza l’una dall’altra. Tokyo ha risposto facendo decollare i suoi aerei da combattimento per monitorare le manovre del dispositivo di Pechino.

Verso una crisi come nel 2012?

E ora che cosa può succedere? Sul piano militare, nonostante le dichiarazioni incendiarie, un conflitto appare al momento improbabile: nessuna delle due potenze ha interesse ad arrivare allo scontro aperto. Ma l’aumento delle attività militari in zone contese e la retorica sempre più aggressiva aumentano il rischio di incidenti non intenzionali. Tokyo ha inviato a Pechino Masaaki Kanai, direttore generale dell’ufficio per l’Asia e l’Oceania del Ministero degli Esteri giapponese, per provare a interrompere la spirale negativa. Domani, martedì, è in programma un incontro col suo omologo cinese, Liu Jinsong. È difficile immaginare una distensione. La Cina vuole che Takaichi smentisca le sue parole, ipotesi che la premier giapponese non sembra prendere in considerazione, nonostante le componenti più moderate del suo stesso partito non appoggino il suo abbandono della cosiddetta “ambiguità strategica” su Taiwan. A conferma della difficoltà nel trovare una soluzione, il premier cinese Li Qiang ha respinto la possibilità di un incontro con Takaichi a margine del summit del G20 che si terrà nei prossimi giorni in Brasile.

C’è il pericolo concreto di una nuova grande crisi come quella del 2012, quando il governo giapponese di Yoshihiko Noda decise di “nazionalizzare” tre delle cinque isole Senkaku contese, acquistandole da un proprietario privato giapponese. In Cina scoppiarono proteste di massa, le più imponenti mai dirette contro il Giappone dagli anni Settamta. Migliaia di persone scesero in piazza in oltre cento città, alcuni gruppi presero d’assalto consolati giapponesi, concessionarie Toyota e Honda vennero devastate, supermercati giapponesi furono saccheggiati e in diverse località automobili con targa giapponese vennero incendiate. Pechino attuò una sorta di embargo commerciale su settori strategici come le terre rare e iniziò a inviare regolarmente navi nelle acque intorno alle Senkaku. Quella pressione marittima è oggi diventata normalità. Possibile che accada qualcosa di simile, come dimostra il caso del drone tra Yonaguni e Taiwan.

Timori anche sulla sfera individuale. Le tensioni tra Cina e Giappone si sono spesso riaccese a intermittenza anche su base autonoma, coinvolgendo i cittadini dei due Paesi in incidenti legati alla sicurezza. Nel 2024, per esempio, un bambino giapponese di 10 anni residente in Cina è stato accoltellato mortalmente a Shenzhen. Le ferite del passato non si sono mai rimarginate. E sono pronte a riaprirsi.

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