Di salute mentale si parla sempre più frequentemente. Negli ultimi tempi, tra le categorie che hanno ricevuto particolare attenzione sul tema a livello internazionale ci sono anche i ricercatori scientifici. In questo contesto, un’indagine pubblicata di recente dall’associazione Actionuni, che riunisce le associazioni di dottorandi e postdottorandi delle università svizzere, rivela una presenza significativa di sintomi depressivi e sensazioni di burn out.
Dottorandi e postdottorandi costituiscono la maggioranza della forza lavoro nei gruppi di ricerca accademici. I primi seguono un percorso di circa quattro anni che li porta dal master al conseguimento del titolo di dottorato, spesso abbreviato in PhD, e sono formalmente studenti. Il postdottorato è invece un periodo meno rigidamente definito, che segue il dottorato e precede l’insediamento di un proprio gruppo di ricerca. In entrambe le fasi è necessario distinguersi per meriti eccellenti attraverso una competizione serrata, con contratti a breve termine stipulati all’interno di strutture gerarchiche marcate. Se a queste condizioni si aggiunge l’elevata percentuale di persone che arrivano dall’estero per studiare nella Confederazione, emergono importanti fattori di stress e affaticamento mentale.
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I risultati del sondaggio
Nel corso del 2024 Actionuni ha condotto un sondaggio in tredici università svizzere, raccogliendo le risposte di oltre 2000 persone. I risultati mostrano che il 22% degli presenta segni di depressione, il 17% valuta la propria salute mentale come “negativa” o “molto negativa” e il 24% si sente mentalmente esaurito almeno una volta alla settimana. Colpisce inoltre il 39% di persone che si dichiara “completamente stressato” rispetto alle prospettive di carriera, una percentuale che sale al 59% tra i soli postdottorandi e che riflette il precariato strutturale del mondo della ricerca.
In un comunicato di Actionuni, le co-presidenti Joanna Haupt e Laure Piguet affermano che «in sintesi, il nostro rapporto indica che il tema della salute mentale in ambito accademico richiede un’attenzione urgente e interventi mirati da parte delle autorità cantonali e nazionali». Le condizioni di lavoro, sia contrattuali sia legate al carico di compiti, portano a «un profondo senso di disagio e impotenza». Per questo l’associazione chiede riforme strutturali sul piano contrattuale, ma anche azioni per prevenire abusi di potere e atti di bullismo, dei quali il 18% degli intervistati si è dichiarato vittima. Secondo le due co-presidenti, questa situazione rischia persino di ridurre la qualità della ricerca svizzera: «L’attuale organizzazione del sistema accademico svizzero costringe i ricercatori a produrre risultati in tempi molto brevi e scoraggia la collaborazione. La competizione e la pressione percepite non solo mettono a rischio la salute mentale, ma compromettono anche la qualità della ricerca prodotta».

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Il parere degli esperti
Da un punto di vista scientifico, lo psichiatra Andrea Raballo, professore all’Università della Svizzera italiana (USI), invita però alla cautela e mette in guardia dal trarre conclusioni affrettate dal sondaggio. «Le percentuali andrebbero confrontate con quelle di coetanei che non sono impegnati in un dottorato ma lavorano in altri contesti. In quel caso non è detto che la differenza sia marcata. Al momento, però, questo dato manca».
Sulla stessa linea Emiliano Albanese, direttore dell’Istituto di Salute Pubblica (IPH) della Facoltà di scienze biomediche dell’USI: «Bisogna stare molto attenti a pensare che lo status di dottorando sia di per sé la causa del malessere psichico. Senza un gruppo di confronto questo tipo di deduzione o speculazione non può e non deve essere fatta». Ciò non sminuisce il valore del sondaggio, che rappresenta un punto di partenza per analisi più approfondite. «Il sondaggio che abbiamo sotto gli occhi è importantissimo perché, in assenza di dati, è uno stimolo a parlare di questi temi e a capire come affrontarli meglio», sottolinea Albanese.
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La Svizzera non è un caso isolato. Altri Paesi hanno condotto indagini analoghe, con risultati simili. Negli Stati Uniti, ad esempio, il 38% dei ricercatori dichiara di trovarsi spesso in condizioni di affaticamento mentale. Per avere un quadro completo, il confronto non dovrebbe limitarsi ad altri Paesi, ma estendersi anche a diverse fasce d’età all’interno della Svizzera. «Spesso si scopre che, con le metriche di questi questionari, c’è una certa continuità quantitativa. Non emerge quindi un incremento specifico all’università, ma piuttosto una reiterazione», spiega Andrea Raballo.
Sondaggi di questo tipo possono inoltre essere influenzati da quello che viene definito “bias partecipativo”. Le persone più inclini a rispondere al questionario sono spesso già coinvolte dal tema, in questo caso la salute mentale, con il rischio di spostare le percentuali. «Avere un disagio psicologico, in senso ampio, è un motivo più forte per partecipare e quindi per rispondere alle domande. Al contrario, chi soffre di una depressione maggiore difficilmente prende parte in modo volontario a uno studio», osserva Emiliano Albanese.
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La strada per migliorarsi
Il sondaggio di Actionuni, pur non essendo conclusiva dal punto di vista scientifico, rappresenta uno strumento importante per portare l’attenzione su un tema sempre più presente e per evidenziare alcuni punti critici del sistema accademico svizzero. In questa direzione le iniziative si moltiplicano. Ad esempio, i dottorandi stessi hanno chiesto alla Facoltà di scienze biomediche dell’USI di dedicare il PhD Day 2025 a dibattiti sulla salute mentale.
Gli strumenti di supporto sono ancora in fase di definizione e non sono omogenei tra le università. L’Università di Basilea, per esempio, offre servizi di consulto psicologico e psicoterapia, mentre all’USI queste opzioni non sono ancora attive. «Purtroppo c’è una sovrastima dell’importanza di questi servizi», commenta Albanese.
Per offrire un aiuto concreto, dentro e fuori le accademie, è necessario parlare apertamente di salute mentale e rimuovere gradualmente lo stigma che la circonda. «La prima cosa è non avere uno scotoma su questi temi e permettere una comunicazione aperta», conclude Andrea Raballo. «È importante evitare una narrazione tra lo scandalistico e l’eccezionalista e puntare invece su una comunicazione normalizzante, che riconosca come alcuni stili di vita e di comportamento possano essere di supporto, anche attraverso gesti semplici e quotidiani, come dormire un numero adeguato di ore».
Segue dal notiziario delle 11:00 di mercoledì 17 dicembre 2025







