Le casse malati possono intervenire contro il cosiddetto “shopping” sanitario, cioè quelle situazioni in cui un assicurato usufruisce in modo non coordinato di prestazioni mediche che si rivelano non efficaci, non appropriate e non economiche. Lo ha stabilito il Tribunale federale, che - come reso noto in una sentenza pubblicata lunedì - ha respinto il ricorso di un’assicurata a cui era stato imposto un cosiddetto “medico gestore”.
La vicenda riguarda una cinquantenne argoviese che aveva stipulato un’assicurazione malattia di base con la libera scelta del medico. La donna evidenziava varie patologie: da disturbi della personalità a dipendenze da analgesici, passando da tentativi di suicidio fino a sospetti disturbi digestivi. Nel tentativo di curarsi aveva fatto capo a varie prestazioni mediche - soprattutto psichiatriche - in maniera non coordinata. Si era data, appunto, al “doctor shopping”.
Da qui l’intervento della cassa malati, che in seguito ad accertamenti peritali aveva stabilito che i trattamenti non erano stati efficaci, come nemmeno appropriati ed economici. E aveva pertanto istituito un “medico gestore” (chiamato anche “gatekeeper”) che verificasse le terapie. Il Tribunale federale ha ora stabilito - si legge in una nota - che tale approccio “è compatibile con il principio della libera scelta del medico e con il sistema delle prestazioni obbligatorie”.
La figura del medico gestore non è inoltre un’ingerenza ingiustificata nei diritti fondamentali del paziente, spiegano i giudici di Mon Repos. Questo perché il diritto alla salute non equivale al diritto a ogni e qualsiasi prestazione sanitaria. Il fatto che le cure vengano decise in collaborazione con il dottore può anzi “tutelare gli interessi dell’assicurata stessa, che viene così protetta da trattamenti o interventi oggettivamente inutili dal punto di vista medico” conclude il Tribunale federale.
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