Denutriti, incarcerati da sei anni senza giudizio, senza acqua calda, in prigioni sovraffollate diventate focolai di tubercolosi: è la storia di tre ex jihadisti svizzeri, fra i molti ex combattenti ancora detenuti dai curdi nel nord della Siria dopo la sconfitta militare dell’autoproclamato Stato islamico. Una squadra di “Temps Présent”, emissione della radiotelevisione romanda, li ha rintracciati fra le 70’000 persone catturate - spesso con le famiglie - e trattenute dalle milizie, a loro volta prese a tenaglia fra gli attacchi del regime di Bashar el Assad da sud e quelli turchi da nord.
Questi ultimi si sono decisamente intensificati negli ultimi mesi: “L’ultima volta hanno colpito molto vicino, 6 o 7 volte nel medesimo punto, il cielo era tutto arancione”, racconta una cittadina elvetica, che con la figlia di 7 anni, nel campo fin da quando era in fasce, vive sotto una tenda e senza elettricità. La bambina, bionda, subiva le molestie dei compagni ed è stata ritirata dalla scuola del campo di Roj, in lingua araba. È la madre - una losannese di 36 anni - a farsi carico della sua istruzione in francese. Ma la piccola, senza cure e cibo adeguati, soffre già di problemi di salute e ai denti.
La situazione è ancora più difficile per i tre uomini, costretti in celle insieme a 25-30 altri compagni. Uno - un ginevrino di 30 anni radicalizzatosi quando ne aveva 18, aspirante attentatore suicida secondo i curdi - si è rifiutato di parlare con i giornalisti. Gli altri due sono vodesi: un 34enne di origine algerina che era stato adottato in Svizzera da neonato e un 30enne. In prigione “aspettiamo la morte”, ha raccontato il primo, spiegando che diversi compagni sono deceduti negli ultimi mesi. “Tutti sono deboli, provo a camminare ma mi stanco subito. Se uno è debole psicologicamente è finita: smette di mangiare, di bere, e pian piano se ne va”, spiega invece il secondo - che non è nella medesima prigione dei compagni e contro il quale le accuse sono labili. Lui afferma di non aver mai combattuto, un’informazione che non può essere verificata (così come la tesi opposta).
Contro l’epidemia di tubercolosi che fa strage nel carcere, i curdi si dicono impotenti. “I nostri mezzi sono insufficienti”, ha spiegato un loro responsabile, Khalid al Rammo, agli inviati di RTS.
Da quando lo Stato islamico è stato battuto, i curdi gestiscono una quindicina di queste prigioni e immensi campi come quello di Roj. I Paesi d’origine dei detenuti vi hanno investito milioni, ma non basta: gli appelli alle capitali occidentali di organizzare un processo e il rimpatrio dei propri cittadini sono rimasti senza risposta. Secondo la relatrice per i diritti umani e la lotta al terrorismo dell’ONU fino al 2023, Fionnuala Ni Aolain, fino al 75% dei prigionieri è malato. Affamare e non curare questa popolazione carceraria specifica, a suo avviso, potrebbe costituire un crimine di guerra e contro l’umanità, così come è illegale la detenzione senza giudizio.
La critica va anche alla Svizzera, che sarebbe obbligata prima di tutto a fornire assistenza consolare, e poi a vegliare che siano trattati bene durante la detenzione. E infine ad assicurarne il rientro a casa. Ma anche la Confederazione, come altri Paesi, rifiuta di permettere il rimpatrio, ad eccezione di quello dei bambini. La madre citata in precedenza, tuttavia, non vuole separarsi da sua figlia, che rischierebbe di non rivedere mai più. Il destino dei figli maschi, per inciso, è ancora peggiore: a 12 anni i curdi li separano a forza dalle madri e li piazzano in “centri di deradicalizzazione”. Da adulti, raggiungeranno gli altri uomini in prigione e rischiano di passare l’intera vita in detenzione senza aver mai fatto commesso alcun crimine.
La posizione svizzera
Messo di fronte a queste critiche, il Dipartimento federale degli affari esteri ha risposto di non sapere dell’epidemia di tubercolosi ma che - ora che ne è informato - si attiverà presso le milizie curde “per chiedere se possono fare qualcosa”. Quanto alla privazione dell’assistenza consolare, il portavoce Nicolas Bideau ha spiegato che “la sicurezza dello Stato ha la priorità sui casi individuali” e che la decisione di impedire il rientro in Svizzera “è una decisione del Consiglio federale”. “Sono effettivamente lasciati a loro stessi in una situazione in cui si sono messi da soli”, afferma. La protezione consolare deve “assicurare che questa gente viva in condizioni più o meno decenti e abbia la possibilità di difendersi”. In realtà, a parte il fatto che di processi non ce ne sono mai stati, solo uno dei tre uomini svizzeri ha un legale, il quale non ha potuto far niente per migliorarne le condizioni. Berna assicura tuttavia di aver preso contatto con la donna elvetica e di aver garantito cure dentarie per la bambina.