“Solo per fare una t-shirt ci vogliono 2'720 litri d’acqua, che corrisponde al fabbisogno da bere per una persona di tre anni”. Jelena Sucic è esperta di sostenibilità e co-coordinatrice per il Ticino di Fashion Revolution, ONG che in tutto il mondo porta avanti campagne di sensibilizzazione sugli impatti ambientali e sociali della moda. Il tema è stato affrontato pochi giorni fa a Lugano in un incontro organizzato da Impact Hub. Anche perché la moda è un settore su cui il Ticino - con risultati alterni - ha puntato moltissimo.
Il dato è contestato, ma secondo l'ONU è proprio l'industria della moda ad essere infatti al secondo posto tra quelle più inquinanti del pianeta. In testa, va da sé, ci sono i produttori di petrolio. Secondo diversi esperti – seppure i dati siano da prendere con le pinze –, almeno il 20% dei vestiti prodotti ogni anno nel mondo vengono buttati via, inceneriti. Sono i vestiti invenduti che l'industria della moda non riesce a piazzare e che vengono appunto bruciati, nonostante gli stessi tessuti potrebbero venir riciclati. La tecnologia c'è, allo stesso modo di come ricicliamo il vetro o l'alluminio, ma non succede quasi mai.
Il professor Claudio Boër, docente anche alla SUPSI, ha studiato a fondo il problema: “A livello mondiale ogni anno sono prodotte ad esempio 25 miliardi di paia di scarpe. Nel progetto europeo che avevamo svolto, in cui partecipavano sei calzaturifici di tutta Europa, tutti ci avevano dato più o meno alcune cifre”. Ma i dati sull’invenduto e soprattutto la fine che fa questa quota parte, “non te li dice nessuno… anche se si può certamente affermare che questi articoli finiscono o in un inceneritore o in una discarica, un vero e proprio spreco” prosegue Boër.
Una miniera d’ora data alle fiamme, verrebbe da dire. Anche per il riciclaggio però non è tutto oro quel che luccica: “È un po’ una chimera quella del riciclaggio. Prendiamo l’esempio del PET: certo, lo si può riciclare bene, ma ha bisogno di essere lavorato. E chi ha bisogno del PET lo trova meno caro fabbricato nuovo rispetto a quello riciclato” aggiunge Boër.
Lo stesso vale quindi per la moda: per i marchi è più conveniente produrre una maglietta nuova in India o in Bangladesh piuttosto che una riciclata in Europa. “Un conto è farne qualche decina, un altro è farne migliaia o decine di migliaia. Perché la scalabilità è importante: ai grandi fabbricanti come Nike o Adidas conviene fabbricare in massa tante paia di scarpe tutte uguali che poi sono distribuite nel mondo”.
Sucic: “Riciclaggio frenato anche dai tessuti compositi”
Un problema che conosce bene anche la già citata Jelena Sucic, co-coordinatrice per il Ticino di Fashion Revolution: “Oltre al già citato fabbisogno enorme di acqua per la produzione, si può pure affermare che più del 20% dell'inquinamento delle acque, a livello industriale globale, viene unicamente dal trattamento e dalla tinteggiatura dei tessuti.
Nessuno dice che sia semplice, ma riciclare, come già scritto, si può: “Il primo approccio è ridare a qualcun altro questi vestiti così come sono, ma la mole è tale che questo riutilizzo non basta. Instaurare un sistema circolare come ad esempio quello dell'alluminio, che ormai è riciclabile praticamente al 100%, nei tessuti è ancora più difficile perché molto spesso si tratta di tessuti compositi. Finché si tratta di una fibra unica il processo è abbastanza fattibile perché è meccanico (scomposizione e ricostruzione della fibra), ma quando hai un tessuto composito, il processo deve aggiungere una decomposizione per via chimica. Quindi due processi e il doppio dei costi”. Proprio per questo alcune società iniziano a progettare vestiti pensati fin dall'inizio per essere poi riciclati, riassemblati e riutilizzati.
Boër: “Il futuro è nella produzione personalizzata, ma di massa”
Oltre all'economia circolare e al riciclaggio, esisterebbero però anche altri modi per evitare gli sprechi. La tecnologia oggi, per esempio, permetterebbe di creare negozi senza praticamente più magazzini. Tornando all’esempio delle scarpe, un cliente potrebbe passare in negozio, misurarsi il piede in modo dettagliato e poi un computer darebbe ordine a una stampante 3D di realizzare le sue scarpe su misura.
Non esisterebbero praticamente più i numeri e c'è chi nell'industria della moda, del resto, ci sta già provando: “Per esempio Adidas – e la loro idea è quella giusta – punta ad avere delle ‘mini fabbriche’ distribuite in Europa, dove il cliente può andare, misurare il piede e il paio di scarpe viene fabbricato nel giro di pochi giorni” conclude ancora Claudio Boër.
L’esempio di Crimagno
La pressione dei consumatori potrebbe cambiar le cose, così come la politica dei governi. Però appunto, come abbiamo visto, qualcosa già si sta muovendo. SEIDISERA ne ha parlato con Cristiano Magnoni, fondatore di Crimagno, una startup ticinese che sta progettando e realizzando scarpe partendo dalle mele o dalla canapa. Ascolta l’intervista.