L’arte contemporanea non si contempla più: si decifra. È diventata un sistema di regole, un gioco di istruzioni, un rituale sociale che mobilita il pubblico più come spettatore di sé stesso che come fruitore di bellezza.
Le opere contemporanee sono fatte di regole che ci mobilitano ad agire. Non si tratta più di oggetti, ma di esperienze codificate. L’arte non è ciò che si vede, ma ciò che si fa — o meglio, ciò che si è chiamati a fare. Un esempio? Imponderabilia di Abramović e Ulay: per entrare nello spazio espositivo, bisogna passare tra due corpi nudi. Non si guarda, si attraversa. Non si sente, si esegue. Il pubblico diventa parte dell’opera, ma solo seguendo le istruzioni.

Uno dei momenti di Imponderabilia, la performance di Marina Abramovic e Ulay
Benvenuti nell’era dell’arte procedurale, dove l’estetica è secondaria e l’emozione un effetto collaterale. L’opera non è più un oggetto da interpretare, ma un dispositivo da attivare. E il pubblico, lungi dall’essere libero, è incanalato in un percorso prestabilito. L’interazione è obbligata, la reazione prevista, la riflessione incasellata.
Eppure, qualcosa resiste. Alcune opere continuano a spiazzare, a disturbare, a rompere il cerchio delle regole. Piss Christ di Andres Serrano, ad esempio, è una fotografia di un crocifisso immerso in urina e sangue. Un’immagine che ha scatenato proteste, vandalismi, dibattiti infuocati sulla libertà artistica e sul confine tra provocazione e blasfemia. Non c’è protocollo da seguire: c’è solo uno scontro frontale con il simbolico.
"Piss Christ" d'Andres Serrano
Oppure Girl with Balloon di Banksy, che si autodistrusse durante un’asta da Sotheby’s, subito dopo essere stata venduta per oltre un milione di sterline. Un gesto che ha messo in crisi il sistema stesso dell’arte come merce, trasformando il momento della vendita in performance e sabotaggio. Qui non c’è attivazione, c’è detonazione. E ancora Dirty Corner di Anish Kapoor, installata a Versailles e descritta dall’artista come «la vagina della regina che prende il potere». L’opera fu vandalizzata, censurata, discussa. Ma non si poteva ignorare. Era lì, monumentale, oscena, politica. Queste opere non chiedono di partecipare. Chiedono di reagire. Non offrono un percorso, ma pongono un ostacolo. Non attivano, disturbano. E in questo, forse, c’è ancora speranza.
Dirty Corner di Anish Kapoor a Versailles
Perché il problema dell’arte contemporanea non è la sua complessità. È la sua prevedibilità. È il fatto che, sotto la superficie del coinvolgimento, si nasconde una coreografia già scritta. Il pubblico non è più libero di sentire, ma è chiamato a «performare» la propria partecipazione. E chi non partecipa, chi non si muove, chi non interagisce, resta fuori dal gioco.
Il paradosso è che questa arte delle regole si presenta come radicale, sovversiva, politica. Ma in realtà è perfettamente compatibile con il capitalismo cognitivo, con la cultura del dato, con l’economia dell’esperienza. Non chiede di pensare, ma di agire. Non cerca il dissenso, ma la partecipazione. Non apre conflitti, ma li simula.
Le regole dell’opera ci dicono cosa fare, ma anche come sentirci mentre lo facciamo. Ecco il punto: l’arte non solo prescrive il gesto, ma anche l’emozione. Non solo il comportamento, ma anche la sua interpretazione. È una pedagogia dell’affetto, una coreografia dell’empatia, una simulazione del coinvolgimento.
E allora viene da chiedersi: dov’è finita l’arte? Quella che ci spiazzava, che ci feriva, che ci lasciava muti? Quella che non chiedeva nulla, ma ci costringeva a fare i conti con noi stessi? Forse è ancora lì, nascosta sotto le istruzioni, sepolta sotto i protocolli, soffocata dalle regole. Forse resiste, silenziosa, in qualche angolo non attivato.

I limiti dell’arte
Voci dipinte 10.11.2024, 10:35
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Ma intanto il sistema va avanti. Le biennali si moltiplicano, le installazioni si replicano, le performance si programmano. E il pubblico, diligente, esegue. Non guarda, non sente, non pensa. Partecipa.
E così, mentre l’arte si trasforma in regolamento, il pensiero critico diventa diserzione. Non seguire le istruzioni, oggi, è il gesto più radicale. Non attivarsi, non interagire, non performare. Restare immobili, restare muti, restare fuori.
Perché forse, in fondo, l’unica forma d’arte rimasta è il rifiuto.
Marina Abramovic
Alphaville 05.11.2024, 11:30
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