Palazzo Reale a Milano accende i riflettori su uno degli artisti più liberi e visionari del Novecento. La mostra “Man Ray. Forme di luce”, aperta fino all’11 gennaio 2026, è una retrospettiva monumentale: oltre 300 opere tra fotografie, disegni, film, radiografie e scatti di moda raccontano l’universo di Emanuel Radnitzky, meglio noto come Man Ray. Un nome scelto non a caso, ma come sintesi poetica: “Man” riprende il nomignolo Manny, mentre “Ray” evoca il raggio di luce, elemento che attraversa tutta la sua produzione. Come sottolinea la storica dell’arte Raffaella Perna, intervistata da Cristiana Coletti nella rubrica Voci dipinte, «Ray è legato all’idea del raggio di luce, che tornerà come cifra importante nel suo percorso d’artista». Uomo Raggio, dunque.

Lo sguardo di Man Ray
Voci dipinte 21.09.2025, 10:35
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Man Ray non ha mai voluto essere incasellato. Pittore, fotografo, cineasta, sperimentatore: ogni medium era per lui un campo di libertà. Lo diceva senza esitazioni: «Cerco di essere semplicemente il più libero possibile nel mio modo di lavorare. Nessuno mi può imporre regole o guidarmi. Mi possono criticare dopo, ma è troppo tardi. Il lavoro è fatto, ho assaporato la libertà». E questa libertà si traduce in una fotografia che non si limita a riprodurre la realtà, ma la reinventa.

Lee Miller, 1930 ca
Raffaella Perna, storica dell’arte e autrice di un testo del catalogo “Man Ray. Forme di luce”, lo definisce un innovatore capace di «sganciare il medium fotografico dal suo valore mimetico, per ottenere forme che ci fanno vedere la realtà con altri occhi». Tecniche come il rayogramma, la solarizzazione e le doppie esposizioni non erano semplici esperimenti, ma tentativi di «riformulare l’estetica fotografica del Novecento». In mostra, queste tecniche diventano tappe di un percorso che non è solo visivo, ma concettuale: Man Ray non fotografa ciò che vede, ma ciò che immagina.
Anche nel cinema ha lasciato un segno indelebile. Il suo primo film, Ritorno alla ragione (1923), è un collage visivo che nasce da gesti semplici e geniali: «Compra una bobina di pellicola, la taglia in pezzi, ci sparge sopra sale, pepe, spilli. Sviluppa tutto, incolla i frammenti e proietta. Era qualcosa che non si era mai visto prima». È il cinema come alchimia, come gioco, come intuizione.

Le Violon d’Ingres, 1924
Ma l’universo di Man Ray non si esaurisce nella tecnica. È popolato da figure femminili che diventano muse, complici, coautrici. Kiki de Montparnasse, con il suo taglio à la garçonne e il trucco marcato, incarna «la donna moderna, la new woman», una maschera che si sovrappone all’iconica maschera africana in Noire et Blanche. Lee Miller, fotografa e amante, condivide con lui una relazione intensa e una ricerca formale, è l’icona di un’immagine che porta la solarizzazione «all’estremo di una resa artistica». Meret Oppenheim, infine, è protagonista di scatti come Erotique voilée, dove si gioca «una tensione tra l’esibire e il nascondersi molto forte».

Noire et blanche, 1926, stampa ai sali d’argento, 17,3x23,5 cm
La mostra milanese propone un percorso tematico che include autoritratti, ritratti di artisti, nudi, fotografie di moda, rayografie e film. Un modo per restituire la complessità di un artista che, come ricorda il curatore Pierre-Yves Butzbach (nell’intervista di Cristiana Coletti), è spesso riconosciuto per le immagini ma non per il nome: «Se mostri Le Violon d’Ingres o Noire et Blanche, le persone le riconoscono. Ma il nome Man Ray non lo conoscono più. Si tratta di far scoprire il suo universo, la poesia e la modernità delle sue immagini che hanno un secolo e sono ancora incredibili».
In un’epoca in cui la fotografia è ovunque, Man Ray ci ricorda che l’immagine può essere ancora mistero, invenzione, sogno. La sua arte non è solo da guardare: è da attraversare. E Milano, con questa retrospettiva, ci offre la chiave per farlo.