Arte e Spettacoli

La mente inquieta: un breve viaggio letterario 

Con lo spettacolo “Je so’ pazzo”, la psichiatra Antonella Garofalo porta in scena tre celebri follie letterarie

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Antonella Garofalo in una scena dello spettacolo

Di: Annalisa Izzo 

An Unquiet Mind (Una mente inquieta, ed. italiana TEA, 2020) di Kay Redfield Jamison è un libro uscito nel 1995 e da allora regolarmente ristampato e tradotto. Si tratta di un saggio sulla sindrome maniaco-depressiva scritto da una psicologa clinica, docente di psichiatria alla John Hopkins University di Baltimora, considerata fra le massime esperte di questo disturbo. La particolarità del libro è di essere scritto nel genere del mémoir, perché la prima paziente che Kay Redfield Jamison ha dovuto curare… è stata se stessa. Tra negazione della diagnosi, overdose di litio, interruzioni della terapia e tentativi di suicidio Kay Redfield Jamison ha compiuto i suoi studi, avviato la sua ricerca nella prestigiosa Johns Hopkins Medical School e deciso di testimoniare, attraverso la sua vicenda personale, cosa significhi vivere con quello che da tempo si chiama «disturbo bipolare». Il desiderio di Kay era contribuire a ridurre la stigmatizzazione di tale condizione.

La scelta della forma autobiografica del mémoir – una forma letteraria, quindi, e non saggistica – per raccontare la propria psicopatologia è stata una scelta cruciale. Coraggiosa, se si pensa alla professione della memorialista, che accettava così di mettere a rischio – proprio perché ammalata – l’autorevolezza della sua voce di studiosa e psichiatra; feconda, se si pensa all’impatto che il libro ha avuto sia nel mondo degli operatori della salute mentale, quanto in quello di coloro che vivono con questo disturbo che hanno trovato nella testimonianza di Kay un potente esempio di autorappresentazione.

Je so’ pazzo: Dialogo in tre atti tra un paziente, una psichiatra e un letterato, invece, è un dialogo teatrale in tre atti scritto da Antonella Garofalo, che dalla primavera di quest’anno è stato messo in scena in diverse città della Toscana e che dovrebbe arrivare in Svizzera italiana il prossimo autunno. Una performance che affianca danza, musica, recitazione, letteratura e dialogo scientifico. Sei i personaggi sul palco, sei i punti di vista sul disturbo maniaco-depressivo. Al cuore dello spettacolo la testimonianza di Mr. Month, che davanti al pubblico rappresenta se stesso, raccontando il proprio vissuto di montagne russe, tra trattamenti sanitari obbligatori, un tentativo di suicidio e una grande fame di vita che lo rende un essere umano di notevole carisma.

Dunque, è proprio nel solco dell’esempio lasciato da Kay Redfield Jamison che la psichiatra siciliana Antonella Garofalo (di cui Mr. Month è stato paziente per vent’anni) ha inteso porsi, per contribuire alla costruzione di una consapevolezza collettiva sul disagio mentale, attraverso l’arte, attraverso il rito laico del teatro e attraverso la rappresentazione della relazione tra paziente e terapeuta.

Lo spettacolo è, in effetti, una creatura ibrida, tra monologo didattico e performance multidisciplinare, in cui la malattia viene, volta a volta, illustrata scientificamente, incarnata, suonata, testimoniata e letta. I movimenti fluidi e al tempo stesso legati del ballerino, sotto lo sguardo sospeso del pubblico, danno corpo alla festinazione dello spirito, in una danza che non si potrebbe più diversa da una taranta, mentre appare chiaro che il punto d’origine della condizione messa in scena si trova nella letteratura (di cui è custode il personaggio del professore).

L’arte precede la scienza, lo sappiamo intuitivamente da prima che a dircelo fosse Sigmund Freud (Il poeta e la fantasia, 1908), perché l’arte dà forma, da sempre, a ciò che da un certo momento in poi la scienza ha chiamato «inconscio». Ecco perché il discorso della psichiatria ha bisogno dell’arte, non tanto, semplicemente, perché in essa trova exempla, illustrazioni perspicue di profili psichiatrici e casi clinici (che siano personaggi di carta o immagini pittoriche), ma piuttosto perché è lì che ha l’occasione di accedere – grazie alla forma che ciascun linguaggio artistico permette di sviluppare e declinare – alla manifestazione (“linguistica”, appunto) del mondo interiore e del popolo di fantasmi che lo abita.  

Il viaggio al quale Je so’ pazzo ci invita conduce nella mente bipolare, prima che a circoscriverla nosograficamente fosse la scienza medica, quando il disturbo bipolare non si chiamava così, ma nondimento si manifestava ogniqualvolta l’individuo sperimentasse la frattura insanabile tra sé e mondo.

Ecco allora, raccontati sulla scena dalla voce dell’attore, la furia cieca e la vergogna tragica dell’Aiace sofocleo, le patetiche allucinazioni dell’hidalgo cervantino, lo straziante scompenso innescato dalla gelosia dell’Orlando ariostesco. Curiosamente la cosa che davvero accomuna i tre “giganti” non è solo la dismisura ­– nelle proporzioni del corpo, nella forza virile e nei pensieri che, come dice Sofocle del suo Aiace, eccedono l’umano. Ad accomunarli è anche l’aver scambiato greggi di pecore per nemici armati fino ai denti, facendone strage. Topos letterario, certo, ma che meriterebbe una qualche osservazione sulla difficoltà a riconoscere quale sintomo primo della sindrome, l’impossibilità di qualsiasi anagnorisis come perdita di consapevolezza della realtà.

A conclusione del viaggio, arriva Mr. Month, il paziente che rappresenta se stesso, ormai riconoscibile come personaggio e autore al contempo, che ha saputo muoversi cioè dalla negazione all’accettazione.

Ma accettazione di cosa? Della natura invincibilmente umana del disagio mentale, del suo permanere inestricabile dall’esperienza dell’essere in vita; accettazione del confine sempre sfumato e sempre mobile tra ragione e follia, tra un’idea fallace di ciò che dovrebbe essere normalità e l’idea, altrettanto fallace, di cosa è malattia.

Prima e a prescindere da ogni campagna di sensiblizzazione, di divulgazione, di destigmatizzazione (pure necessaria e urgente, per i motivi che conosciamo tutti troppo bene), se l’arte ha un potere terapeutico è perché essa è capace di rendere umano l’umano. Di mostrare che il dolore e la sua forma ci riguardano tutti.

Mentre nel mantice della fisarmonica le note della famosa canzone Je so’ pazzo di Pino Daniele si colorano inevitabilmente di accenti melanconici, il testo in napoletano risuona alle orecchie di chi l’ha cantata mille volte. E non sono menomato, sono pure diplomato… je so’ pazzo.

1:55:09

La mente inquieta

Charlot 15.06.2025, 14:35

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  • Mario Fabio

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