A cent’anni dalla nascita e a venticinque dalla scomparsa due splendide mostre, in corso in Italia, rendono omaggio al grande protagonista della fotografia Mario Giacomelli.
A Palazzo Reale di Milano, fino al 7 settembre: “Mario Giacomelli. Il fotografo e il poeta” e a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, fino al 3 agosto, “Mario Giacomelli. Il fotografo e l’artista”.
Io sono nato piccolo e rimango piccolo, con idee piccole; non c’è bisogno di essere grandi.
Mario Giacomelli
Così dichiarava Mario Giacomelli nel 2000, nel corso di una lunga conversazione con la saggista e archivista Simona Guerra da cui è nato il libro La mia vita (Bruno Mondadori, 2008), un memoir sincero e appassionante. All’epoca l’autore, settantacinquenne, stava preparando una grande retrospettiva che di lì a pochi mesi avrebbe inaugurato al Palazzo delle Esposizioni di Roma, ma che purtroppo non fece in tempo a vedere. Può sorprendere sentir pronunciare una tale dichiarazione da uno dei fotografi italiani più conosciuti e apprezzati al mondo, ma Mario Giacomelli era proprio così: un uomo discreto, umile, schivo, un po’ malinconico e per certi versi “arcaico”, legato alla terra, e al suo luogo d’origine, Senigallia, tra il mare e le colline marchigiane, dove visse tutta la vita. Per buona parte della sua lunga carriera di fotografo, Giacomelli usò una sola fotocamera ‒ una Kobell Press ‒ che modificò più volte adattandola alle sue esigenze, e che non volle mai sostituire con un mezzo più prestante. In realtà, a un certo punto acquistò una nuova macchina fotografica, ma la teneva nell’armadio perché non voleva che l’altra si accorgesse che ne aveva pronta una nuova. Intatta e inutilizzata, alla fine la restituì al venditore.
Mario Giacomelli, Scanno, 1957-59
Con le sue “idee piccole” Mario Giacomelli è stato in grado di consegnarci grandissime fotografie, che ancora oggi contempliamo e scrutiamo con curiosità, attenzione e fascinazione. Per lui fotografare significava «entrare sotto la pelle del reale». Che il soggetto fosse un paesaggio o un ritratto, cercava sempre qualcosa di vero, di profondo, in definitiva cercava sé stesso, e così facendo ha creato immagini che non cessano di interrogarsi sulle grandi questioni dell’esistenza: lo scorrere inesorabile del tempo, la fragilità e la caducità della vita, la morte, l’amore nelle sue forme più pure, il rapporto con la natura e con le proprie radici.
La fotografia è un’alchimia: i materiali e i procedimenti sono simbolici e l’artista mette in gioco sé stesso, il proprio percorso esistenziale.
Mario Giacomelli

© Archivio Mario Giacomelli
Oggi, a cent’anni dalla nascita e a venticinque dalla scomparsa dell’autore, due splendide mostre complementari promosse dall’Archivio Mario Giacomelli gli rendono omaggio, celebrandone l’eredità artistica e culturale e indagando i diversi aspetti della sua opera. A Milano, a Palazzo Reale fino al 7 settembre, “Mario Giacomelli. Il fotografo e il poeta” punta l’attenzione sul suo profondo legame con la poesia: Giacomelli, infatti, non solo traeva ispirazione dai componimenti di grandi poeti (da Leopardi a Montale, da Caproni a padre David Maria Turoldo), ma considerava anche la fotografia come pura espressione lirica, capace di tradurre la realtà in un insieme di emozioni e suggestioni. A Roma, al Palazzo delle Esposizioni fino al 3 agosto, invece, “Mario Giacomelli. Il fotografo e l’artista” pone in primo piano il suo rapporto con il mondo dell’arte: Giacomelli aveva una particolare affinità con gli artisti dell’Informale, uno su tutti Alberto Burri («Guardando le opere di Burri io sento fortemente il paesaggio, come forza, come idea di partenza, per lui come per me») ed egli stesso dipingeva sovente.

Mario Giacomelli, Presa di coscienza sulla natura, 1976-80
Nato il 1 agosto 1925 in una famiglia di origini contadine, Mario Giacomelli è costretto a fare i conti con la morte già a nove anni, quando il padre Alfredo viene stroncato da una polmonite. Per mantenere lui e i suoi due fratelli, la giovane madre Libera lavora come lavandaia nell’ospizio di Senigallia. Nel 1938, a tredici anni, Giacomelli inizia a lavorare come garzone presso la Tipografia Giunchedi. Il montaggio e la composizione che vede eseguire dal tipografo catturano il suo giovane sguardo, influenzando la sua futura attività di fotografo. Dopo la guerra, Giacomelli riprende a lavorare, stavolta come operaio tipografo. Maturata la giusta esperienza, nel 1950 decide di aprire una tipografia tutta sua. Ad aiutarlo economicamente per questo grande passo è un’anziana signora ospite nella casa di riposo in cui lavora la madre. Nasce così la Tipografia Marchigiana di via Mastai 5, che nel tempo sarà visitata da numerosi artisti, critici, studiosi e appassionati.

© Foto Paolo Biagetti
Nel dicembre del ’53, alla vigilia di Natale, Giacomelli decide di acquistare per pochi soldi una macchina fotografica Bencini Comet. Il giorno dopo si reca in riva al mare e scatta la sua prima foto: L’approdo, una scarpa trasportata dalle onde sulla battigia. È l’avvio della sua avventura fotografica. Nello stesso periodo, Giacomelli conosce il carismatico artista e critico d’arte Giuseppe Cavalli, che lo inizia alla riflessione sulla fotografia e gli permette di entrare in contatto con il gruppo fotografico Misa. Autodidatta, l’autore comincia a sperimentare e a sviluppare il proprio personalissimo linguaggio, contraddistinto da un bianco e nero estremamente materico e contrastato. Come afferma Bartolomeo Pietromarchi, curatore insieme a Katiuscia Biondi Giacomelli delle due mostre in corso: «Fin dagli esordi, la sua fotografia si distingue per una tensione interiore che la avvicina più alla poesia che al documento: per lui, la fotografia è un linguaggio autonomo, capace di parlare non solo per immagini, ma per emozioni, per analogie, per silenzi. Come un poeta con le parole, Giacomelli costruisce i suoi mondi attraverso segni essenziali, frammenti di luce e ombra, linee e superfici cariche di suggestione».

Mario Giacomelli, Caroline Branson da Spoon River, 1958
Nel 1955 Giacomelli acquista una nuova fotocamera, la suddetta Kobell Press, che lo accompagnerà per il resto del suo cammino. «Io il profumo che ha il fieno dopo la pioggia, l’ho imparato dopo che ho comperato la mia macchina fotografica» dichiara, lasciando intendere la totale sintonia con il mezzo, che considera alla stregua di un “prolungamento” del proprio corpo e del proprio pensiero. Nello stesso anno, Giacomelli si fa notare vincendo il primo premio nell’ambito del Concorso Nazionale di Castelfranco Veneto, dove viene definito dal fotografo Paolo Monti, membro della giuria, “l’uomo nuovo della fotografia italiana”. Nel tempo, il percorso dell’autore sarà scandito da innumerevoli premi e riconoscimenti.

Mario Giacomelli, L’infinito, 1986_88
A spiccare in questa prima fase della ricerca fotografica di Giacomelli sono soprattutto i progetti dedicati all’ospizio e al paesaggio rurale, temi sui quali l’autore continuerà a indagare fino in tarda età. Dalle sue ripetute visite alla casa di riposo presso cui lavora la madre nascono scatti intensi e pieni di umanità che vanno ad alimentare serie come Vita d’ospizio (1954-56), Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1966-68), e ancora Non fatemi domande (1981-83), Ninna nanna (1985-86) ed E io ti vidi fanciulla (1994).
Di tutte le cose che ho fatto penso che questa sia la ricerca più interessante; ho provato infatti più emozioni stando a contatto con questo ambiente che in tutte le altre ricerche messe insieme. […] Perché? Dopo avere lottato tutta la vita, perché la fine di una vita deve essere questa, perché deve finire in questi ambienti, in queste istituzioni sballate?
Mario Giacomelli

Mario Giacomelli, anni '90
Lo stile peculiare di Giacomelli non è frutto soltanto del momento fugace dello scatto, ma anche di un lungo lavoro in camera oscura. Katiuscia Biondi Giacomelli parla di lui come di un “alchimista” che in fase di stampa «tramuta la materia e accede a una realtà parallela in cui le cose si impastano con il sogno, l’allucinazione, il ricordo di chi le guarda, e intanto dopo tagli dal negativo come zoom sul soggetto a decontestualizzarlo […] e le sue manovre sotto l’ingranditore, in una gestualità che toglie ogni ancoraggio spaziale a creare vertigine e sospensione, ecco che finalmente dalle bacinelle degli acidi emerge l’immagine: trasuda vitalità, perché dentro vi sono due vite, quella del soggetto (del mondo) e quella del fotografo (di chi abita e guarda il mondo)».

Mario Giacomelli, Io non ho mani che mi accarezzino il volto, 1961-63
Nel corso dei decenni successivi, Giacomelli realizza diverse serie importanti, come Lourdes (1957), Scanno (1957-59), Puglia (1958), Zingari (1958), Loreto (1959), Un uomo, una donna, un amore (1960-61), Mattatoio (1960), Io non ho mani che mi accarezzino il volto, nota anche come Pretini (1961-63), realizzata all’interno del seminario vescovile di Senigallia e ritenuta uno dei vertici della fotografia del Novecento, e poi La buona terra (1964-66), nata dall’assidua frequentazione del fotografo con una comunità di contadini. Nel frattempo, le sue opere iniziano a circolare a livello internazionale: in particolare, nel 1964 la serie Scanno, che include la celebre immagine del bambino circondato da una sorta di aura, viene acquisita da John Szarkowski, direttore del Dipartimento di Fotografia del MoMA di New York.

Mario Giacomelli, Favola verso possibili significati interiori, 1983-84
Negli anni Ottanta e Novanta, l’approccio di Mario Giacomelli alla fotografia subisce una ulteriore evoluzione sul piano formale e concettuale: le sue immagini diventano sempre più evocative, introspettive, simboliche, a tratti oniriche. Lo dimostrano serie come Favola, verso possibili significati interiori (1983-84) e Bando (1997-99). «Il bianco come segno per comunicare, un vuoto che è uno spazio ancora da riempire, per me il vuoto sta in tutto quello che puoi aggiungere con la tua fantasia e il nero è il segno di quello che inizi a dire» annota in questo periodo. È uno dei tantissimi scritti che ci ha lasciato e grazie al quale possiamo comprendere meglio la sua opera intrisa di poesia, di autenticità e al contempo di ineffabilità.

Mario Giacomelli, Per poesie, anni 90
Anche le pareti della camera oscura di Giacomelli, zeppe di ritagli di giornali, fotografie, cartoline e memorie, dicono molto di lui e della sua visione del mondo. In un angolo del muro, il Maestro marchigiano aveva scritto: “Paesaggio non come luogo ma come riflessione interiore”. Ecco, cercando un’emozione in un campo arato, nelle rughe di un anziano, nei giochi ingenui dei seminaristi, nei versi di un poeta, Mario Giacomelli è riuscito a combinare in modo straordinario documentazione e invenzione, realtà e immaginazione, segnando in modo indelebile la storia della fotografia internazionale.
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Voci dipinte 01.06.2025, 10:35
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